Giustizia: Corte Costituzionale, i detenuti che non collaborano con la giustizia non sono tutti uguali

Per presentare una richiesta ammissibile di permesso-premio (una richiesta che possa, cioè, essere esaminata nel merito), il condannato per “reati ostativi” deve sottostare a regole dimostrative più o meno rigorose, a seconda delle ragioni per cui non ha collaborato con la giustizia. Queste regole sono più rigorose per chi sceglie di non collaborare, pur potendolo fare; meno rigide, invece, quando la collaborazione è impossibile (in quanto i fatti criminosi sono già stati integramente accertati) o inesigibile (a causa della limitata partecipazione a tali fatti), e sarebbe quindi priva di utilità per la giustizia. La sentenza della Corte Costituzionale n. 20 depositata oggi (redattore Nicolò Zanon) “esclude che questa differenziazione di trattamento determini una lesione del principio di uguaglianza e perciò dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal magistrato di sorveglianza di Padova”. Secondo la Consulta, dunque, è “corretto” distinguere “la posizione di chi ‘oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole’ (silente per sua scelta), da quella di chi ‘soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può’ (silente suo malgrado)”.
La Corte costituzionale ha osservato che “il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce – secondo dati di esperienza – un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Quando, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, ai fini del superamento del regime ostativo può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata”. Per questo, la Consulta “conclude che questa differenziazione non appare irragionevole”, “senza dimenticare – aggiunge la sentenza – che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile”.

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