(Da Rimini) “Uscire dal chiuso delle nostre cittadelle per dialogare. Non un dialogo strategico teso a convincere l’altro ma un incontro fatto di rispetto. E questo rispetto comincia quando accettiamo il fatto che l’altro possa credere in altre cose”: è quanto affermato da padre Adrien Candiard, domenicano, membro dell’Institut dominicain d’études orientales (Ideo) del Cairo, partecipando oggi all’incontro “L’io, la fede e la sfida delle culture”, in programma al Meeting di Rimini. Padre Candiard, di Parigi, trapiantato in Egitto dove studia l’islam, con i suoi libri e la sua predicazione cerca di far dialogare la modernità con il punto “nevralgico del cristianesimo nel nostro tempo, la vocazione alla libertà”. Partendo dalla sua esperienza di vita in un paese islamico come l’Egitto, il religioso ha detto: “Quando i miei superiori mi hanno mandato al Cairo, ho pensato di essere in esilio, ho scoperto invece di essere stato mandato al centro della missione della Chiesa. Perché il dialogo più interessante è quello che Dio ha col mondo. La nostra missione non è tanto affermare le posizioni della Chiesa, ma è servire Cristo, che ci precede sempre e parla al cuore di ogni uomo, attraverso l’esperienza di ognuno”. “La mia missione – spiegato – è aiutare i musulmani a sentire la voce di Dio nella loro religione. La difficoltà più grande che incontro in questo è che si tratta di una cultura che si è costruita in opposizione con l’occidente cristiano e viceversa. La diffidenza con cui ci si guarda impedisce di far incontrare Cristo”. La sola strategia possibile è “il disarmo” che vuol dire “uscire dalla nostra cittadella minacciata e accettare un dialogo vero che parte con l’ascolto. Per far conoscere Cristo occorre l’amicizia con l’altro. Il problema è che tante volte noi cristiani vogliamo prendere il posto di Dio e questo ci impedisce di essere noi stessi e fare la nostra parte. Se voglio essere ascoltato devo ascoltare al di fuori di ogni pregiudizio e idea preconcetta”.
All’incontro ha portato la sua testimonianza anche padre Agbonkhianmeghe E. Orobator, presidente Conferenza dei gesuiti dell’Africa e del Madagascar (Jcam), che ha ripercorso la sua conversione adulta dalla “fede africana” della sua famiglia al cristianesimo, incentrando la sua riflessione sul tema dell’importanza del “far rivivere le proprie radici culturali” e del “nome”: “Un proverbio africano dice che un leopardo non perderà mai le sue macchie, a prescindere dalle volte in cui attraverserà il fiume. Così io non ho abbandonato le mie origini spirituali animiste quando mi sono convertito al cristianesimo, anzi l’ho approfondita. Solidarietà, fraternità e ospitalità sono i tre principali valori che in me derivano dall’animismo. Il coraggio di dire ‘io’ significa che sono legato agli altri e alla natura: ‘io sono perché noi siamo”. E poi il nome: “È il nome che portiamo che ci conferisce i privilegi dell’individualità. Il nome è un ponte, non un muro. Il nome apre un passaggio verso l’altro”.