“Quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242/2019, è intervenuta sull’art. 580 del codice penale, ha stabilito delle condizioni di non punibilità per condotte di aiuto al suicidio: queste comunque integrano un reato, pur se poi l’autore va esente da responsabilità se il giudice valuta sussistenti le opinabili circostanze indicate dalla Consulta”. Lo riporta una nota del Centro studi Livatino, che fa riferimento alla lettera al quotidiano La Stampa del ministro della Salute, Roberto Speranza, che “sollecita le Asl alla consumazione di quello che resta pur sempre un delitto, pur sottolineando l’assenza di norme che abbiano finora fatto seguito alla sentenza della Corte”.
Il Centro studi sottolinea che il ministro “non chiarisce come, mancando una legge del Parlamento, dipendenti di una Asl possano aiutare al suicidio e non essere sottoposti a un procedimento penale”. “Al tempo stesso egli non menziona un passaggio pregiudiziale prescritto dalla Consulta per ogni procedura ‘legale’ di fine vita: l’avvenuto ricorso alle cure palliative”. E ancora la nota evidenzia che “se una delle condizioni di non punibilità è che il paziente ‘sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili’, prima di farlo morire è doveroso provare a lenire quelle sofferenze”.
Emerge, dunque, che viene segnalata una contraddizione: “La legge sulle cure palliative, pur approvata dal Parlamento all’unanimità nel 2010, trovi limitatissima attuazione per carenza di investimenti. Il ministro della Salute non fa quello che a lui compete, cioè rendere operativa una legge che ha l’obiettivo di alleviare il dolore; e fa quel che a lui non compete, cioè scavalcare il Parlamento a proposito di aiuto al suicidio ed eutanasia, scaricando sulle Asl responsabilità che vanno rigorosamente disciplinate”.