La Chiesa colombiana, a qualche giorno di distanza, torna a prendere posizione sulla sentenza C-233/21, adottata giovedì 22 luglio, dalla Camera plenaria della Corte Costituzionale, che garantisce il diritto a una morte dignitosa per lesioni personali o malattie gravi e incurabili. A intervenire è direttamente la presidenza della Conferenza episcopale colombiana (Cec), con una nota articolata in sei punti e firmata tra gli altri dal presidente della Cec, mons. Luis José Rueda Aparicio, arcivescovo di Bogotá. Vengono presentate alcune considerazioni con “l’obiettivo di contribuire al dialogo e al discernimento comune sui valori che dovrebbero guidare la nostra società”.
I vescovi affermano che “l’eutanasia costituisce una grave offesa alla dignità della persona umana e favorisce la corrosione dei valori fondamentali dell’ordine sociale”. Aggiungono che l’adozione di quanto sancito dalla Corte “costituirebbe un grave pericolo per i più fragili e vulnerabili della nostra società, sui quali penderebbe il peso dell’eventuale soppressione della loro vita, determinando una grave condizione per l’esercizio della propria libertà”.
Si ritiene, piuttosto, che un atteggiamento solidale verso la fragilità e la vulnerabilità dell’essere umano possa portare una persona ad abbandonare l’intenzione di sopprimere volontariamente la vita, anche nei casi in cui la scienza medica non abbia la risposta per una cura fisica.
Per affrontare in modo più umano questa realtà, senza dover ricorrere all’eutanasia, i vescovi chiedono allo Stato di “garantire un’adeguata assistenza sanitaria alle persone che subiscono lesioni fisiche o malattie gravi e incurabili, o che si trovano in condizioni di stadio terminale, soprattutto quando si tratta dei più poveri”.
Per quanto riguarda la salute, la nota chiede, infine, un maggiore investimento di risorse economiche e un intervento psicosociale per assistere le famiglie e gli operatori sanitari dei malati, soprattutto i più indifesi; e, insieme, al personale sanitario di “trattare adeguatamente il dolore e rispettare la dignità del paziente fino al momento della morte naturale”.