“Possiamo rifarci alle parole di san Giovanni Paolo II, e cioè che, tra i martiri della giustizia e indirettamente della fede, potremmo – anzi, dovremmo – annoverare Paolo Borsellino”. Lo dice in un’intervista al Sir, don Cesare Rattoballi, parroco a Palermo, cugino dell’agente di scorta, Vito Schifani, ucciso nella strage di Capaci, e molto vicino negli ultimi due mesi di vita al magistrato ucciso in via d’Amelio, 29 anni fa. “Non desidero recriminare, ma Paolo fu lasciato solo a portare avanti quel valore nel quale ha creduto: la giustizia – dice –. Non fu invece mai lasciato solo dalla sua famiglia, mentre fu abbandonato da alcune istituzioni”.
Il sacerdote, allora assistente regionale Agesci, ricorda la fiaccolata organizzata nel primo mese dopo la strage di Capaci: “Coinvolsi Paolo a intervenire. Da tutta Italia arrivarono a Palermo cinquemila giovani dello scoutismo Agesci. Chiesi a Paolo di parlare loro. Fu un discorso veramente memorabile e meraviglioso. Assieme a lui abbiamo scelto di scrivere un messaggio all’interno del testimone che avremmo affidato loro: le beautitudini del Vangelo di Matteo – Capitolo quinto, dal versetto 1 al versetto 12 –. Paolo era affascinato da questa magna carta del cristiano, dove lui si rispecchiava”.
Infine, un altro ricordo: “Il venerdì mattina precedente il suo eccidio, due giorni prima – il 17 luglio 1992 –, andai alla procura del Tribunale di Palermo, nel suo ufficio. Parlammo della situazione che si era creata dopo la strage di Capaci, della testimonianza che portavo assieme alla moglie di mio cugino, la signora Rosaria Costa. Nel congedarmi, lui mi disse: ‘Fermati ancora, ho da chiederti di confessarmi, perché mi preparo, non si sa mai quale sia il momento’. Aveva un grande amore per il Signore e, se si doveva presentare dinanzi a Lui, voleva farlo con una coscienza purificata. La sua fede in Cristo gli dava la forza d’affrontare questo martirio, come anche il suo credo nel valore della giustizia”.