“Le forti immagini diffuse sui social ci fanno molto riflettere e, allo stesso tempo, ci inducono a non puntare solo il dito di condanna verso coloro che hanno sbagliato e hanno offeso la dignità personale dei detenuti, ma anche a sottolineare la difficile missione che vivono ogni giorno i poliziotti penitenziari”. A parlare è l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, commentando le violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ad aprile 2020, in piena prima ondata di Covid-19.
“Gestire criticità e sicurezza insieme non è facile, ma certamente non si può assolutamente condividere la violenza gratuita verso persone indifese che già stanno pagando con una pena detentiva per i loro errori”, prosegue don Grimaldi, secondo il quale, allo stesso tempo, “non possiamo neanche generalizzare mettendo in cattiva luce tutto il lavoro della Polizia penitenziaria che ogni giorno con sacrificio e grande professionalità svolge il proprio dovere”.
L’ispettore generale chiarisce: “Ci sono certamente mele marce da eliminare, coloro che fanno abuso di potere, che amano il protagonismo. Davanti a tutto questo quale deve essere la nostra risposta? Cosa fare? Quale direttive dare davanti alle emergenze di oggi e che sempre metteranno in discussione il sistema penitenziario? Non bisogna abbandonare a se stesso questo importante apparato dello Stato che nelle carceri svolge una difficile missione. Hanno bisogno di sostegno, di vicinanza, ma soprattutto di una formazione permanente e un confronto franco su come gestire le criticità, senza commettere illegalità rispettando le leggi”.
Don Raffaele aggiunge: “Molti giovani poliziotti sono inesperti, non hanno molta conoscenza ed esperienza del sistema carcerario. Il sovraffollamento poi rende le nostre carceri ‘polveriere di rabbia’ difficili da gestire”.
Bisogna “pertanto riportare umanità e dignità nei nostri istituti. Tutti hanno diritto alla speranza. Tutti hanno bisogno di vivere un vero riscatto sociale. Ripensiamo il carcere allora non come luogo di repressione ma luogo di riscatto, per aiutare i ristretti a vivere il cambiamento, favorendo il più possibile le misure alternative alla detenzione”.