“Tra le molteplici problematiche dell’attuale pandemia vi è anche la difficoltà di raccontare questi eventi traumatici come possibile fonte di insegnamento per il vivere comune. Ciò che è accaduto ha colto l’umanità alla sprovvista: il pericolo è arrivato dove meno ce lo si aspettava” ed ha costituito “una grande lezione di umiltà, anche sotto l’aspetto intellettuale”. Parte da qui p. Giovanni Cucci, scrittore de La Civiltà Cattolica, che nel quaderno 4100 della rivista, in uscita sabato, osserva come nelle narrazioni “a bassa intensità”, di genere apocalittico sembri sempre mancare un messaggio di speranza mentre, afferma, “coltivare un atteggiamento proattivo di fronte agli eventi catastrofici è indispensabile per continuare a vivere”. Ma per farlo “è necessario poter trovare un senso in quella situazione; da qui l’importanza di narrazioni capaci di parlare del trauma comunicando un fondato messaggio di speranza”.
L’articolo esamina così un recente libro di David M. Carr “Santa resilienza. Le origini traumatiche della Bibbia)” in cui si descrive proprio la capacità della Bibbia di narrare il trauma e di scoprirvi la presenza costante di Dio. Perché il trauma non è mai l’esito finale. L’ipotesi di fondo di Carr è che la Bibbia sia nata come risposta alla sofferenza comunitaria, come memoria collettiva del trauma del popolo di Dio. La Bibbia non entra in merito a speculazioni, non fornisce spiegazioni razionali al trauma, ma lo incorpora e lo tramanda all’interno di un piano di salvezza che tutto attraversa. Attraversa il trauma, non lo elimina. Per p. Cucci “la lettura provocatoria della Bibbia mostra che dal trauma si può uscire nel momento in cui ci si lascia istruire da esso, guardandosi dal pericolo di isolarsi, per investire piuttosto sulla condivisione di un patrimonio comune, esprimendo nella prova il meglio di sé”. In questo caso, conclude, “il trauma può diventare una lezione correttiva di salutare crescita umana”.