“Sono un’irachena Sabea-Mandea, che ha visto i propri figli, fratelli e parenti fuggire con numerose destinazioni e motivazioni”. A presentarsi così al Papa, durante l’incontro interreligioso a Ur, è stata Rafah Husein Baher: “Abbiamo amici in tutto l’Iraq, che ci aiutano come se fossimo una famiglia. A Bassora, c’era un uomo Sabeo-Mandeo, il cui nome era Najy. Ha perso la vita per salvare la famiglia del suo vicino musulmano”. “Tutti gli iracheni convivono pacificamente, tra di noi ci sono familiarità e storie comuni, insieme sopravviviamo attraverso le rovine della guerra sullo stesso suolo”, ha assicurato la donna: “Il nostro sangue si è mischiato, insieme abbiamo provato l’amarezza dell’embargo, abbiamo la stessa identità. L’ingiustizia ha colpito tutti gli iracheni. Posso testimoniare che non ha escluso nessuno: sangue innocente è stato versato da tutti gli iracheni. Il terrorismo ha violato la nostra dignità con impudenza. Molti Paesi, senza coscienza, hanno classificato i nostri passaporti come privi di valore, guardando le nostre ferite con indifferenza”. “La visita di Sua Santità in Iraq significa che la Mesopotamia è ancora rispettata e apprezzata”, ha proseguito Rafah: “La Sua visita significa un trionfo di virtù, è un simbolo di apprezzamento per gli iracheni. Resterò nella terra dei miei antenati. Sarò sepolta vicino a mio padre: è una mia decisione, per rispetto delle grandi parole: siamo tutti fratelli”.