Eutanasia: mons. Paglia (Pav),” no a sopprimere la vita”. “Promuovere una cultura delle cure palliative”

Nelle fasi terminali della vita, il primato va dato all’accompagnamento della persona malata, al prendersi cura. E i modi ci sono, ben diversi dalle pratiche eutanasiche, che si vorrebbero mettere in atto per “praticità”, non certo per umanità. Lo ha sostenuto mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la vita, nella lectio tenuta stamattina al Congresso internazionale dei Cavalieri di Malta, a Roma, sul tema “Tecnologie e fine vita: il primato dell’accompagnamento”.
Mons. Paglia ha citato prima di tutto il Catechismo, laddove esplicita chiaramente la legittimità di rifiutare l’uso di mezzi terapeutici sproporzionati e ha spiegato che il Magistero della Chiesa esclude “con chiarezza la legittimità delle scelte che sopprimono la vita (eutanasia e assistenza al suicidio), ma si assume con altrettanta chiarezza la differenza tra uccidere e lasciar morire. Mentre il primo, nelle diverse forme in cui può configurarsi, è considerato sempre illecito, il secondo è considerato lecito quando siamo in presenza di trattamenti sproporzionati”. Nella fase terminale della vita, “è necessario un dialogo, tra sanitari e persona malata”. Il “no” all’eutanasia è netto e senza appello. Due, secondo Paglia, gli “strumenti che possono aiutare malati, famiglie, operatori sanitari”. Le disposizioni anticipate di trattamento sono “uno strumento valido per il rispetto della volontà del paziente nella valutazione di proporzionalità, che è il criterio fondamentale che legittima l’impiego dei mezzi terapeutici in medicina”. Il secondo strumento consiste nelle cure palliative. Di qui la necessità di sostenere una “cultura delle cure palliative”, applicando davvero la legge 38/2010: “Occorre dare nuovo spazio alla relazione e all’ascolto delle emozioni, che esprimono la dimensione propriamente umana del morire. Qui sta il problema che la cultura delle cure palliative è chiamata ad affrontare. Se non ne è capace, il rischio è che questo progetto, nato con l’intento di valorizzare personalmente e socialmente la fase finale della vita terrena (e il passaggio a quella eterna), finisca per ridursi a un’ulteriore forma di medicalizzazione del morire”. Ai credenti, alle persone di buona volontà, sinceramente vicine al prossimo, spetta oggi “prendere pubblicamente posizione contro le pressioni di varia natura che spingono per ridurre il paziente in fase terminale a un insieme di funzioni biologiche inefficienti, da medicalizzare o da narcotizzare; e, dall’altra, spetta di non svalutare il tempo del morire, ma di approfondirne il senso per ogni persona e per l’intera comunità”.

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