“Dal 2005 al 2017 un porto italiano su sette è stato oggetto degli interessi della criminalità organizzata, quasi uno su due se si prendono in considerazione i porti di rilevanza nazionale. Un fenomeno che ha investito tutto il Paese, da Nord a Sud. Alcuni scali sembrano essere particolarmente esposti e la ‘ndrangheta riveste un ruolo da protagonista. I porti sono uno spazio dove la criminalità organizzata può trovare occasione di sviluppo in diversi ambiti”. La denuncia arriva da una ricerca pubblicata su lavialibera.it, il sito della rivista di Libera e Gruppo Abele. “La Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dnaa) da tempo segnala la presenza negli scali italiani ed europei di gruppi criminali che svolgono attività sia nell’economia legale, sia nei mercati illeciti, in particolare nel traffico di stupefacenti. In questa partita giocano un ruolo rilevante le mafie, ma non sono gli unici attori coinvolti, dato che, soprattutto per i traffici illegali, spesso è necessario il contributo di più soggetti: chi produce, chi imbarca, chi si occupa del trasferimento, chi recupera il carico, chi lo fa uscire dall’area portuale e chi si occupa della distribuzione. I porti, dunque, rappresentano un’opportunità unica per i gruppi criminali di ottenere profitti e rafforzare i legami di collusione sia a livello locale, sia a livello internazionale”, spiega la ricerca.
Per approfondire il caso italiano, può essere utile provare a ricostruire una mappa analitica della presenza e delle attività dei gruppi di criminalità organizzata all’interno del sistema portuale attraverso lo studio delle relazioni della Dnaa. “In questo caso- scrive l’autore della ricerca Marco Antonelli, dottorando in Scienze politiche all’Università di Pisa e rappresentante di Libera Liguria – abbiamo preso in esame le 12 relazioni pubblicate tra il giugno 2005 e il giugno 2017. Naturalmente questa fonte di dati presenta alcuni limiti. Innanzitutto, si tratta di documenti che rappresentano il punto di vista e la narrazione istituzionale di un ente che si occupa della dimensione repressiva del fenomeno. Inoltre, all’interno dei report non vi sono né una sezione metodologica che permetta di capire come sono stati raccolti i dati, né un focus specifico sulla dimensione portuale. Nonostante questo, si tratta comunque di una fonte attendibile, aggiornata e frutto di un lavoro di analisi dettagliato”.