L’avvocato Magnús Davíð Norðdahl, che ha combattuto perché la famiglia Kehdar rimanesse in Islanda, spiega anche che “il caso ha avuto una enorme risonanza nell’opinione pubblica e sui media e le persone hanno fatto pressioni, non erano contente di questa decisione: in ballo c’erano quattro ragazzi, che vanno a scuola, che hanno degli amici qui e ogni genitore può sentirsi coinvolto in una storia del genere. E sarebbe stato terribile farli tornare indietro. E poi la gente ha visto quanto ingiusto era e quindi si è schierata: viviamo in una società democratica e penso che l’interesse pubblico nel caso hanno fatto la differenza, come dovrebbe succedere sempre in una società democratica”. Non è la prima volta che Norðdahl si trova confrontato con casi simili, negli ultimi quattro anni, anche se questo è stato il più complesso, e non è l’ultimo. Ce n’è già un altro che lo attende, quello di Rewida, anche lei egiziana, ha 12 anni e vive in Islanda da più di due anni, ma ora si nasconde dal governo islandese insieme ai suoi genitori e ai tre fratelli più piccoli.
“Viviamo in un mondo in cui le migrazioni saranno il tema del XXI secolo, sarà la questione centrale da affrontare per la politica, e penso sia il nostro dovere aiutare gli altri esseri umani che fuggono”, riflette alla fine della conversazione l’avvocato Norðdahl. “E spero che l’Islanda condivida questa responsabilità con tutte le nazioni europee e partecipi alla condivisione dei pesi che fino a questo momento sono stati sulle spalle di Paesi come l’Italia, la Grecia e la Spagna”. Annunciando il buon esito della sua battaglia sui social, Norðdahl aveva scritto: “questa è una vittoria per la società islandese, poiché il pianificato rimpatrio sarebbe stato una macchia nera indelebile nella storia della nazione. Una misura del valore di ciascuna società è il modo in cui tratta i suoi gruppi più vulnerabili e i bambini sono in prima linea”.