Sibari: mons. Savino (Cassano all’Jonio), “identificare la città come sito d’eccellenza significa vincere subcultura negativa sulla Calabria”

“Sibari, il fiore all’occhiello del Mediterraneo, la culla di una intramontabile civiltà, è stata il demiurgo di una cultura che si respira ancora oggi, passeggiando nei siti storici, nelle stanze del Museo archeologico, nella fertilità del suo territorio. Se dovessi ripensare, con una metafora a questa cittadina, penserei proprio a quel seme di senapa che è il più piccolo sulla terra ma che, con la giusta cura e devozione, fa rami tanto grandi da permettere agli uccelli di ripararsi”. Lo scrive oggi il vescovo di Cassano all’Jonio, mons. Francesco Savino, intervenendo sulla richiesta del sindaco di Cassano, Gianni Papasso, di candidare Sibari a patrimonio dell’Unesco. “Mi sembra – dice il presule – solo il giusto riconoscimento per un territorio così intriso di cultura, che ha sempre lavorato sulla sussistenza, accompagnandosi con il sottofondo dell’arsura del sole, delle copiose alluvioni e di uno spirito comunitario vocato all’accoglienza. Queste sono reminiscenze di secoli gloriosi che, a discapito di ciò che sembra, l’area della Sibaritide non ha mai dimenticato, seppure non le appartengano più i fasti ed il lusso di quell’ellenismo che si è riconvertito in un forte attaccamento alle radici storiche”. Per mons. Savino “ritrovare lo splendore della polis, vorrà dire ritrovare dentro di noi, tutti, un senso di comunità” che, come dice Papa Francesco, deve essere “luogo dell’ascolto in cui l’ardore della carità prevalga sulla tentazione di una religiosità superficiale ed arida”. Riuscire ad identificare Sibari come “sito di eccellenza storica e culturale, con il riconoscimento che merita, vorrebbe dire – spiega ancora il presule – vincere su quella subcultura che dipinge la Calabria e i calabresi come inoperosi, mafiosi e subalterni. Perché esiste un’altra Calabria che vive della lentezza dei suoi paesaggi, del valore dei suoi siti naturali ed archeologici, della sua storia che non è la banalizzazione di una migrazione, ma la commozione di un ritorno eterno dell’uguale”.

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