Il 25 agosto di tre anni fa, “più di 700.000 Rohingya fuggivano dallo Stato del Rakhine in Myanmar per raggiungere gli oltre 200.000 rifugiati in Bangladesh, scappati durante le precedenti ondate di violenza. Ancora oggi le speranze di un ritorno a casa in sicurezza per i circa 860.000 rifugiati Rohingya a Cox’s Bazar sono davvero poche e le condizioni di vita nel campo di Kutupalong, il più grande al mondo, restano difficili. Si vive in rifugi sovraffollati, costruiti con plastica e bambù, e l’accesso ai servizi di base è scarso, a volte inesistente. E ogni anno, quando arriva la stagione dei monsoni, il rischio di inondazioni, smottamenti e di perdere i pochi beni in possesso è reale”. Lo evidenzia Medici senza frontiere (Msf), le cui équipe stanno riscontrando un numero crescente di persone con problemi di salute mentale, anche se la maggior parte dei pazienti, sia bambini sia adulti, presenta infezioni respiratorie, malattie della pelle e diarrea, patologie per lo più legate alle pessime condizioni di vita. A tutto questo si sono aggiunte le sfide poste dal Covid-19.
“La pandemia di Covid-19 ha acuito la vulnerabilità dei Rohingya. La mancanza di uno status legale e l’assenza di soluzioni a lungo termine rende il loro futuro più incerto che mai – afferma Alan Pereira, capomissione di Msf in Bangladesh -. In un momento in cui in tutto il mondo ci si trova a fare i conti con spostamenti ridotti e piani accantonati, è importante ricordare come questa sia la condizione dei Rohingya da generazioni”.
Il primo caso positivo tra i Rohingya nei campi in Bangladesh è stato registrato il 15 maggio scorso, causando un’ulteriore erosione della fiducia nel sistema sanitario, già compromesso a causa delle cure mediche scadenti ricevute in Myanmar. Le voci e la disinformazione nei campi sono all’ordine del giorno e la paura tiene lontane dai centri di salute le persone che necessitano di cure mediche essenziali non legate al coronavirus. “Alcuni pazienti non ammettono apertamente di avere sintomi correlati al Covid-19 per paura di venire trattati diversamente”, dichiara Tarikul Islam, capo dell’équipe medica di Msf a Cox’s Bazar.
Msf vede i Rohingya rimasti in un limbo anche in Myanmar e Malesia. Nello Stato di Rakhine continuano a subire discriminazioni, in particolare restrizioni alla circolazione, che limitano anche il loro accesso all’assistenza sanitaria. In Malesia, che ospita una delle più grandi comunità di Rohingya fuori dal Myanmar, in molti non ricercano cure mediche o tardano a farlo fino a quando le loro condizioni non diventano molto gravi per paura di essere denunciati o perfino arrestati alle autorità. Le barriere all’accesso al lavoro comportano che la maggior parte non può permettersi l’assistenza sanitaria anche in caso volesse ricercarla.
Negli ultimi mesi, diversi Paesi del sud-est asiatico stanno ripetutamente respingendo per paura del Covid-19 le imbarcazioni usate da centinaia di rifugiati Rohingya per fuggire dai campi in Bangladesh. Le persone sono lasciate alla deriva per settimane con poco cibo e acqua e sono spesso vittime di abusi.