La Suprema Corte di Cassazione dell’Egitto ha confermato mercoledì 1° luglio la sentenza di condanna a morte pronunciata nei precedenti gradi di giudizio contro Wael Saad Tawadros, l’ex monaco copto ortodosso egiziano giudicato colpevole dell’assassinio di Anba Epiphanios, il vescovo abate ucciso il 29 luglio 2018 nel monastero di San Macario, nella regione del Wadi Natrun. Lo riferisce l’agenzia Fides. La Corte di cassazione ha invece condannato all’ergastolo come complice nello stesso crimine, il monaco Falta’os al-Makari, cancellando la condanna a morte precedentemente comminata anche contro di lui dalla Corte penale di Damanhur. Le due precedenti condanne a morte erano state emesse dalla Corte penale di Damanhur il 23 febbraio 2019, e il 24 aprile 2019 avevano ricevuto il nihil obstat dal Mufti d’Egitto, l’autorità religiosa islamica incaricata di emettere le fatwa (pareri giuridici basati sulla Sharia) su questioni rilevanti. In Egitto, una condanna a morte non può essere considerata definitiva se non viene approvata dal Mufti. La prima duplice sentenza di condanna a morte era stata subito definita come “una catastrofe” da Anba Agathon, Vescovo copto ortodosso di Maghagha. Il vescovo Agathon aveva da subito invitato a pregare per i due condannati, e aveva suggerito di presentare al più presto il ricorso per un’ulteriore istanza di giudizio. L’assassinio del vescovo Epiphanios, abate del monastero di San Macario, ha rappresentato, scrive Fides, un vero e proprio trauma per l’intera comunità copta e in particolare per gli ambienti monastici. Secondo quanto ricostruito durante le indagini, tra l’Abate assassinato e i due condannati erano sorti contrasti per questioni economiche e per diverse violazioni delle regole monastiche da parte dei due monaci (uno dei quali, Wael Saad Tawadros, dopo l’omicidio era stato spogliato dell’abito monastico al termine di un lungo processo canonico). Durante il dibattimento processuale, i due accusati hanno continuato a proclamarsi innocenti, e hanno anche ritrattato precedenti confessioni di colpevolezza che, a loro dire, sarebbero state estorte attraverso pressioni psicologiche da parte degli organi inquirenti.