Il primo caso di Covid-19 registrato nella regione di Gambella, in Etiopia, era un rifugiato sud sudanese, sottoposto a inizio giugno ai controlli sanitari al confine e messo in quarantena alla frontiera. “La comunità umanitaria considera i rifugiati particolarmente a rischio per il Covid-19, perché vivono spesso in strutture sovraffollate, dove è difficile garantire misure di igiene minime. A Gambella, una regione particolarmente povera dell’Etiopia, queste considerazioni sono valide per tutti, non solo per i rifugiati”. Lo sottolinea Medici con l’Africa Cuamm, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, che si celebra oggi.
A marzo 2020 la regione di Gambella ospitava oltre 315.000 rifugiati sud sudanesi: persone che negli ultimi anni sono scappate dalla guerra civile e sono state accolte dal governo etiope, a cui è stata data la possibilità di costruire la propria casa in campi dedicati. Ad oggi la popolazione rifugiata nella regione di Gambella è pari ai due terzi di quella residente e non mancano le occasioni di contatto tra le persone, aspetto che con il coronavirus solleva preoccupazione.
“Sia i rifugiati sia i residenti sono Nuer – spiega Nahome Melesse, field officer di Medici con l’Africa Cuamm a Gambella – e quindi condividono la stessa cultura e la stessa lingua. Questo può rendere più facile il contatto e più difficile il controllo delle frontiere e degli spostamenti. Molti rifugiati infatti escono dal campo, incontrano i residenti, spesso tornano in Sud Sudan dove hanno parte della famiglia o le mandrie di bestiame. Questi movimenti diventano un fattore di rischio importante per la diffusione del Covid-19”. Etiopia e Sud Sudan hanno visto un’impennata nelle ultime tre settimane e si teme che i casi possano essere molti di più di quelli dichiarati.
L’intervento di Medici con l’Africa Cuamm nella regione, iniziato nel 2017, ha sempre tenuto conto delle esigenze di entrambi i gruppi di persone: rifugiati e comunità ospitante.
“Per via del rischio di contagio – afferma Nahome Melesse – oggi è più difficile garantire le attività comunitarie che servono a sensibilizzare e fare visite mediche alle persone, mentre continuiamo a portare avanti le formazioni del personale nelle strutture sanitarie regionali, fornendo anche materiale di protezione, indispensabile in questo momento”.
Mentre il mondo ha dovuto adattarsi in fretta ad un virus completamente nuovo, cambiando spesso strategie e percezione del rischio, dentro i campi l’allerta è ancora bassa tra i rifugiati, come spiega Matteo Bottecchia, capo progetto di Medici con l’Africa Cuamm a Gambella: “Anche per colpa di notizie false che circolano nei campi, per molti rifugiati sud-sudanesi il ‘korona’ rimane una malattia dei bianchi, che non li riguarda. Gli sviluppi recenti in Sud Sudan potrebbero cambiare progressivamente questa percezione, ma c’è molto lavoro da fare per comunicare correttamente i rischi e il bisogno di proteggersi dal contagio”.