In Italia, ordinando la popolazione in cinque gruppi per livello crescente di reddito, l’utilizzo del nido risulta decisamente più basso per il primo gruppo, composto dalle famiglie più povere, al cui interno solo il 13,4% dei bambini fruisce del servizio. Tale valore sale al 23,5% nel secondo gruppo, cresce in misura molto più contenuta nel terzo (24,8%) e nel quarto gruppo (25,9%) e di nuovo in misura più consistente nella fascia più alta di reddito (31,2%). Sono alcuni dei dati contenuti nel report presentato oggi dall’Istat su “Nidi e servizi educativi per l’infanzia. Stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato 0-6”.
Dai dati diffusi, le percentuali di utilizzo del nido risultano decisamente sotto la media in corrispondenza delle principali condizioni di disagio, come la grave deprivazione materiale (13,7%), il rischio di povertà (14,2%) e la bassa intensità lavorativa (15,5%) mentre nelle famiglie che non presentano alcuna condizione di disagio la quota è del 26,2%.
Altri fattori, spiega l’Istat, tendono a ridurre l’utilizzo dei servizi educativi per la prima infanzia tra le famiglie con minori disponibilità economiche. Il ricorso al nido d’infanzia riguarda ad esempio i bimbi di genitori che lavorano in sette casi su 10 nel triennio 2017-2019, anche per i criteri di priorità definiti dai Comuni. Criteri spesso orientati soprattutto alla funzione di conciliazione: danno la precedenza a coppie in cui entrambi i genitori lavorano escludendo presumibilmente nuclei familiari che, invece, potrebbero trarne grandi benefici anche per l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
L’introduzione dei “bonus nido”, si legge nel report, ha dato “un impulso positivo allo sviluppo del sistema, contribuendo probabilmente all’aumento della domanda e dei tassi di utilizzo dei servizi registrati negli anni più recenti. Un impulso ulteriore da questo punto di vista è atteso, anche se non ancora osservabile, dai successivi potenziamenti di tale misura che elevano l’importo erogabile sulla base della situazione economica delle famiglie”.
Un altro aspetto preso in considerazione è quello degli anticipi nella scuola d’infanzia: “Una parte non esigua della domanda – rileva l’Istat – si rivolge a forme educative non appropriate alla delicata fascia di età dei bambini sotto i 3 anni”. Il fenomeno degli “anticipatari”, particolarmente evidente nelle Regioni meridionali, genera conseguenze che si estendono anche alle fasce di età successive.