“Credo sia giunto il tempo per israeliani, palestinesi e altri di riunirsi seriamente per iniziare a sviluppare dei piani utili a trasformare la nostra realtà in una che sia accettabile e sostenibile, basata su uguaglianza e libertà di movimento, e rappresentativa delle nostre diverse identità”. È quanto afferma, in un’intervista al Sir, Gershon Baskin, co-presidente fondatore di Ipcri, Israel Palestine Center for Research and Information, ed editorialista di The Jerusalem Post, commentando la volontà di Israele di annettersi parti del territorio occupato della Cisgiordania e la conseguente reazione palestinese di svincolarsi da ogni accordo e intesa con Usa e Israele. Decisioni che di fatto rendono sempre più ardua la soluzione al conflitto israelo-palestinese, denominata “Due Popoli, Due Stati”, sostenuta dalla comunità internazionale, Santa Sede in testa. “Credo che la soluzione dei Due Stati non sia più praticabile. Potrebbe non esserci alcuna soluzione. Ma questo è il momento di iniziare a pensare a ciò che verrà dopo, a un nuovo orizzonte” afferma Baskin, che tra i suoi incarichi ha rivestito anche quello di consulente esterno del defunto primo ministro Yitzhak Rabin per il processo di pace, di negoziatore per il rilascio del militare israeliano Gilad Shalit, e di direttore dell’Istituto per l’educazione alla coesistenza ebraico-araba. E il nuovo orizzonte potrebbe essere la soluzione a “Uno Stato”, alla quale lavorare “israeliani e palestinesi insieme”. “La sfida è enorme”, ammette Baskin, “abbiamo due popoli, più o meno di dimensioni uguali, con quantità di potere molto sproporzionate, entrambi legati alla stessa area geografica di cui rivendicano la proprietà, negando entrambi i diritti e l’esistenza dell’altro”. Si tratta, per l’editorialista, “di approfondire questioni relative allo status di residenza, alla cittadinanza, alla governance, sviluppare meccanismi che ci permettano di esprimere le nostre diverse identità e sviluppare istituzioni nazionali basate sull’uguaglianza e su un governo comune. È la sfida dell’integrazione sociale, politica, economica, della riparazione delle ingiustizie”. “Vi sono importanti esempi di transizione da conflitti etnici-religiosi-razziali a sviluppi pacifici da cui possiamo imparare – conclude –. Penso al Sudafrica, all’Irlanda del Nord, al Ruanda, alla Bosnia: tutti possono fornirci insegnamenti da rileggere attraverso la lente del nostro conflitto”.