In Libia la situazione dei migranti è disperata: nel mezzo di un conflitto e di una pandemia, affamati, impauriti, vittime di razzie, abusi, violenze e uccisioni. Il grido d’allarme è lanciato di nuovo da don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia, che riceve ogni giorno telefonate da migranti, soprattutto eritrei, che vivono in varie parti della Libia, intrappolati in zone di conflitto, “dove le milizie costringono ad imbracciare le armi a uomini e ragazzini”. A Tripoli, racconta, “centinaia di profughi sono totalmente abbandonati a se stessi, cacciati dalle case in piena pandemia perché non hanno i soldi per pagare l’affitto, ci dicono che non mangiano da giorni, rischiano di morire di fame prima ancora di ammalarsi di Covid-19, visto che è diventato impossibile reperire il cibo. C’è una specie di caccia al profugo da gruppi criminali che vanno alla razzia”. Nei centri di detenzione a Zawiya, Kumuz, Mekazin ci sono circa 5mila profughi eritrei, etiopi e sudanesi “che da mesi ci chiedono aiuto per essere evacuati fuori dal territorio libico al sicuro”. “Ieri – racconta il sacerdote eritreo – abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da un ragazzino sudanese impaurito ed affamato, solo al mondo, ci ha detto che non mangia da giorni a Tripoli, ha paura di lasciare il suo rifugio fatto di cartoni per strada perché non sa chi potrebbe incontrare. Molti profughi sono stati derubati, hanno preso di mira le case abitate da migranti e profughi, c’è un razzismo diffuso verso i neri. I razzi e gli spari che si sentono ovunque ci dicono i profughi vivono nell’incubo giorno dopo giorno”. “Di fronte a tutto ciò che sta accadendo in Libia – denuncia –, nessuno può voltarsi dall’altra parte, nessuno può dire ‘non sapevamo’. Ogni migrante o profugo morto in Libia oggi lo avremo sulle nostre coscienze. Italia, Francia, Germania facciano lo sforzo per ottenere un corridoio umanitario per l’evacuazione di queste persone in trappola”. Il suo appello ai governi europei e alle autorità libiche è di “evacuare tutte queste persone verso i Paesi limitrofi, creando un campo temporaneo, per poi organizzare un programma di reinsediamento per i bisognosi di protezione internazionale e trasferirli legalmente verso Paesi in grado di accoglierli, proteggerli e integrarli nel proprio tessuto sociale, culturale ed economico”.