“Nella crisi da coronavirus riparte perfino il gioco d’azzardo, con gradualità, lentamente, nel rispetto delle misure di sicurezza, nonostante una pericolosissima crisi economica che attanaglia famiglie e imprese, e con un’attenzione direi sbrigativa ad un grande male, la ludopatia. Insieme alle costosissime spese medico-sanitarie che bisogna affrontare, vi sono conseguenze collegate al gioco d’azzardo, che determinano le dissoluzioni di legami affettivi, familiari, educativi, fallimenti economici, la scomparsa di attività imprenditoriali, sono danni incalcolabili”. La denuncia è del vescovo di Teggiano-Policastro, mons. Antonio De Luca. “L’azzardo è un vortice che avvolge innumerevoli componenti del vivere umano e sociale”, aggiunge il presule, sottolineando che “non rovina solo il giocatore, dietro di lui scendono nel fondo di un abisso la famiglia, i legami, le amicizie, il lavoro. Tutto viene trascinato in questa idrovora che risucchia il meglio delle relazioni e delle risorse. Lo spettro dell’usura e del riciclaggio si defilano dietro questa dolorosa dipendenza. La costante frustrazione della perdita innesca altri e dolorose illusioni che inducono a tentativi sempre fallimentari”.
Di qui “nessun atteggiamento moralistico deve inquinare l’approccio al problema della ludopatia”, ma la necessità di “riproporre la vocazione alla dignità umana di ogni persona” e “da questa consapevolezza l’appello alla libertà che determina scelte coraggiose ed energici ‘no!’ che conferiscono il senso di un’altissima responsabilità e di una ricerca di senso autentico per ciò che concerne le relazioni, l’impiego dei talenti, la cura dei legami, l’attenzione ai bisogni dell’altro”.
Per il vescovo, “la prevenzione deve passare attraverso l’attenzione a ciò che ci circonda. La gioia non è un narcisistico benessere spesso immortalato dalla moda dei selfie istantanei, che se da un lato evocano una interiore vacuità, dall’altro sono anche una ricerca, un appello per il ritrovamento di una capacità di relazionarsi nell’amicizia sincera, nella premura verso chi è nel bisogno, nell’ascolto di chi ha perso la speranza”. E conclude: “La solitudine non si combatte con il riempitivo allucinogeno di un gioco che deforma le relazioni, ma abbattendo il diaframma dell’egoismo e della smodata ricerca di un godimento estemporaneo che il profitto ed il guadagno lasciano intravedere ma che non possono dare. Curare la persona significa rimetterla in relazione. Questo è il sogno di Dio”.