“Portiamo all’altare i tanti dolori di questi mesi, i tanti morti, ricordiamo i loro cari, una preghiera particolarissima per loro, poi, per i troppi medici e operatori sanitari che hanno pagato con la vita il loro generoso servizio ai contagiati di Covid-19”. Ha esordito così il patriarca di Venezia Francesco Moraglia nell’omelia della messa di Pasqua, presieduta domenica nella basilica cattedrale di san Marco. Dopo avere messo in guardia dalla ideologia “sottile e insidiosa” del riduzionismo, il patriarca ha esortato ad “andare oltre il pensiero strumentale, ossia, efficientista”. La crisi dell’Occidente, ha osservato, “prima di tutto, è culturale, sono venute meno le domande sul ‘senso’ della vita e che fondano l’etica; sì, prima di chiedersi ‘come’ fare una cosa bisogna chiedersi ‘perché’ la si fa o se è bene farla”. In questi giorni di pandemia, ha proseguito, “ci siamo riscoperti fragili, oltremodo, vulnerabili; sì, i fatti ci hanno riportati alla dura realtà”. La Pasqua cristiana “è, quindi, quel piccolo seme che, cadendo in terra, muore e solo così diventa spiga e produce frutto in abbondanza o diventa albero tra i cui rami gli uccelli vengono a farvi il nido. C’è, quindi, come detto, modo e modo di guardare il sepolcro vuoto, di leggervi i segni che esso custodisce, di collegare il tutto alla vita di Gesù, al suo Vangelo, che è annuncio di salvezza”. Una lettura “non condizionata da stati emotivi, da pregiudizi ideologici, ma in sintonia con le domande che la fede suscita diventa una crescita, un dialogo verso una luce nuova, la luce di Pasqua, la luce di Gesù risorto”. “Con l’aiuto di Dio, nei prossimi mesi dovremo non solo cercare equilibri nuovi, ma trovare una nuova saggezza nell’organizzare la filiera che conduce al bene comune di un territorio, di uno Stato, di una comunità di Stati, del mondo intero – ha concluso – . Anche in questo ci aiuti la luce di Pasqua che guarda all’uomo, prima, nel suo bisogno di solidarietà e inclusione, poi di consumo e anche di performance”.