Sono “circa 41.490 combattenti, 32.809 uomini, 4.761 donne e 4.640 bambini, provenienti da 80 Paesi” che si sono recati in Siria e in Iraq per combattere al fianco dello Stato Islamico. Un afflusso reso possibile dallo “scarso livello di cooperazione tra gli attori regionali e internazionali che hanno contrastato lo Stato Islamico” e che “renderà difficile fronteggiare il fenomeno dei ‘returnees’ o la loro adesione e partecipazione ad altri conflitti. Nella battaglia contro l’estremismo violento l’approccio securitario (polizia e servizi di sicurezza) non è più sufficiente”. Lo si legge nel primo Rapporto sul terrorismo e il radicalismo islamico in Europa di React, l’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo, presentato oggi a Roma, con il patrocinio del Ministero della Difesa. “Dalla caduta di Baghuz (23 marzo 2019), l’ultima roccaforte dello Stato Islamico in Siria – scrive Matteo Bressan, analista e docente di Relazioni internazionali presso la Lumsa, tra gli autori della ricerca – sempre più figli e mogli dei soldati del sedicente califfato si sono riversati fuori dai territori controllati per raccogliersi in campi di prigionia nel Nord Est della Siria, in Turchia e nella Regione autonoma del Kurdistan Iracheno. Ad oggi i governi europei sono tendenzialmente riluttanti a riprendersi i propri connazionali andati a combattere in Siria e Iraq”. Secondo il Rapporto, foreign terrorist fighters “europei” partiti per combattere in Medio Oriente sarebbero oltre 5mila (di cui il 14% donne), mille sarebbero caduti in Siria e Iraq. Almeno un terzo è sopravvissuto; un altro terzo sarebbe tornato nel proprio Paese, altri 2500 avrebbero trovato rifugio in Paesi terzi unendosi ai gruppi jihadisti locali (dall’Afghanistan alla Libia, dall’Africa all’Asia centrale). Circa 800 al momento sono detenuti nelle carceri curde in Iraq: molte le donne e i bambini. Una condizione di “prigionia” che ha sollevato ampi e legittimi dibattiti in Europa e negli Usa sull’opportunità di limitare la possibilità di rientro nei loro Paesi. Regno Unito, Francia, Germania, Danimarca, Norvegia, Belgio e Kazakistan stanno favorendo in alcuni casi e caso per caso, il ritorno delle donne e dei bambini nati nei territori controllati dallo Stato Islamico oppure giunti al seguito dei genitori. I critici di tali rimpatri, si legge nel Rapporto, affermano che “le società occidentali non sarebbero adeguatamente equipaggiate per affrontare il reinserimento degli affiliati allo Stato Islamico nella società, con possibili rischi di attacchi terroristici. Inoltre, i servizi di sicurezza non disporrebbero di risorse sufficienti per monitorare continuamente tutte le persone rimpatriate, compresi i minori”. “Non è quindi escluso – si sottolinea nel Rapporto – che diversi prigionieri, sebbene cittadini europei, possano essere condannati a morte dai tribunali iracheni, attraverso processi di massa, prove estorte sotto tortura e verdetti automaticamente confermati in appello”. A destare preoccupazione, rivela la ricerca, non sono solo i “lupi solitari” e i “returnees”, i foreign fighter di ritorno, ma anche le cosiddette “cellule coccodrillo”, vale a dire “simpatizzanti e cellule dormienti”, radicalizzati già presenti in Europa “pronti a colpire con esplosione di veicoli, uccisioni di massa, singoli omicidi, manomissione delle reti, rapimenti con cui finanziare l’organizzazione”. La ricerca pone nella “prevenzione e nella deradicalizzazione le prossime sfide da affrontare”, campi “dove sarà necessario investire in modo oculato” puntando “al contenimento del terrorismo impegnandosi per combatterne le cause e la diffusione. Nella battaglia contro l’estremismo violento l’approccio securitario (polizia e servizi di sicurezza) non è più sufficiente”.