“Mettersi al fianco delle famiglie che hanno una fragilità prenatale”. E’ questo, secondo Giuseppe Noia, presidente dell’Associazione ginecologi ostetrici italiani, consultore del Dicastero laici, famiglia e vita, e presidente della Fondazione “II cuore in una goccia” onlus, “il modo di fare la medicina condivisa”. Per questo nei mesi scorsi la Fondazione, insieme all’Università Cattolica di Roma, ha lanciato il “Progetto Down”. Un progetto di ricerca sulla Trisomina 21, spiega il professore in un’intervista al Sir, che “si articola su due livelli di studio”. Il primo “consiste in una linea di ricerca che andrà a validare una serie di ipotesi sulle cause della sindrome; il secondo nello studio di nuove possibilità di cura prenatale con approcci terapeutici finalizzati a ridurre il danno neurocognitivo del bambino con sindrome di Down prima della nascita”. Anziché abbandonare le famiglie dopo la diagnosi precoce di Trisomia 21, “già alla fine del terzo mese si possono aprire finestre di speranza proponendo anche in via sperimentale alcuni integratori che non hanno dimostrato rischi. Impiegando cioè grandi quantità di antiossidanti che attraverso la placenta arrivano al sistema nervoso centrale del bambino, che si organizza soprattutto tra la fine del terzo e del quinto mese, per ridurre il danno ossidativo creato dal cromosoma in più a carico dell’organizzazione cerebrale del bimbo Down. Ma occorre – avverte – intervenire in epoca prenatale”. Noia è favorevole al test precoce sul Dna fetale, ma “a condizione che non sia contro la persona ma a suo favore”. E la consegna dei risultati alle coppie va fatta “all’interno di una consulenza con professionisti competenti in grado di accompagnarle dopo una diagnosi di Trisomia 21, 18 o 13 o di gravi malformazioni” come fa la Fondazione che ad oggi si è presa cura di oltre mille famiglie.