Nel 2018, la metà delle donne che hanno lasciato la “casa rifugio” (50,8%) ha concluso il percorso di uscita dalla violenza e il 7,8% per conclusione del percorso di ospitalità, facendo intravedere un esito positivo per circa 6 donne su 10. È quanto emerge da report “Le case rifugio per le donne maltrattate” con i principali risultati dell’indagine condotta nel 2019 dall’Istat in collaborazione con il Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) presso la Presidenza del Consiglio e le Regioni.
“Il canale attraverso il quale le donne si sono avvicinate maggiormente alla ‘casa rifugio’ – viene spiegato – è quello dei servizi sociali territoriali, i quali rappresentano – per il 30% delle donne – la via di segnalazione e indirizzamento alla protezione e alla residenza offerti dalla ‘casa rifugio’”.
Stando ai dati diffusi, la larga maggioranza delle case offre ospitalità di medio-lungo periodo (86,5%) e ospitalità programmata in urgenza (67,1%); meno frequente l’ospitalità in emergenza (58,1%), soprattutto nel Centro Italia, dove è prevista dal 50% delle case, e al Nord-ovest (52,7%).
Quasi la totalità delle “case rifugio” (95,9%) prevede criteri per l’accoglienza delle donne vittime di violenza e il 72,1% ne prevede per l’accoglienza dei figli.
“Le misure per garantire la sicurezza delle donne ospiti non risultano del tutto adeguate”, viene denunciato nel report: l’86,9% delle case è a indirizzo segreto, ma il 5,9% di esse non ha previsto alcun sistema di sicurezza e misure come la linea telefonica diretta con le forze di polizia, il servizio di portineria, il servizio di sorveglianza notturna o il servizio di allarme.
Per quanto riguarda il personale, le 1.997 lavoratrici impegnate nelle case sono volontarie in circa la metà dei casi, in misura minore al Sud e nelle Isole.
Infine, l’85,1% delle case riceve finanziamenti pubblici, il 2,7% fa un uso esclusivo di fondi privati e l’11,3% delle “case rifugio” provvede autonomamente al proprio sostentamento.