A dieci anni di distanza dal 12 gennaio 2010, con il sisma del 7° grado della scala Richter che alle 16.53 rase al suolo la capitale di Haiti, Port-au-Prince, provocando almeno 230.000 morti, oggi la situazione è ancora “insostenibile, desolante e inaccettabile” ma per motivi diversi. Lo afferma al Sir da Port-au-Prince Fiammetta Cappellini, responsabile Avsi ad Haiti, organizzazione no profit che dal 1972 realizza progetti di aiuto allo sviluppo in 32 Paesi del mondo. “È inaccettabile che la gente viva così ed è incredibile che non si riesca a generare un cambiamento – sottolinea Cappellini –. Capiamo che le crisi internazionali sono altrove e che l’opinione pubblica non ha voglia di sentir parlare di Haiti ma i bisogni sono enormi. Non si può voltare la testa dall’altra parte!”. Negli anni gli sfollati che vivevano nelle tendopoli e poi nei rifugi temporanei hanno ricevuto un po’ di denaro per spostarsi fuori dalla capitale. Risultato: si sono sistemati in un terreno incolto e inospitale a 3 km da Port-au-Prince e hanno costruito una immensa bidonville con case abusive, Canaan, con materiali di scarto, spesso recuperato dai crolli, senza servizi di nessun genere. Ci vivono almeno 300.000 persone, in condizioni disumane, forse molti di più. “Se domani accade un nuovo terremoto fa il doppio dei morti, ne siamo sicuri. È una situazione che fa paura”, avverte. Ogni anno il 12 gennaio le autorità pubbliche organizzano una commemorazione ufficiale davanti alle fosse comuni delle vittime del terremoto, alla periferia di Port-au-Prince. “Quest’anno è probabile che non si farà per questioni di sicurezza – spiega la cooperante –. Oppure si svolgerà molto in sordina”. L’altro appuntamento temuto è il 7 febbraio, una data doppiamente significativa per Haiti per la fuga nel 1986 del dittatore Jean-Claude Duvalier, soprannominato ‘Baby Doc’, e nel 1991 per la prima elezione democratica con Jean-Bertrand Aristide. Le organizzazioni umanitarie sono in allerta: “Ci aspettiamo nuove ondate di manifestazioni e proteste, anche se prevedere cosa succederà ad Haiti è sempre difficile”. Il lavoro degli operatori umanitari procede tra rari momenti di calma, coprifuochi notturni e intere settimane chiusi in casa durante le proteste violente che chiedono le dimissioni del presidente Jovenel Moïse. Avsi ha in loco 15 operatori internazionali e 250 haitiani. “Nessuno vuole più venire a lavorare qui, è una situazione veramente difficile. Molti stanno partendo per mettere in sicurezza le famiglie – ammette la responsabile Avsi –. Ma ad affrontare i rischi maggiori è lo staff locale”.