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“Il concetto di ‘pace positiva’ non è sviluppato in maniera sufficiente nel mondo”. Lo ha detto Johan Galtung, sociologo norvegese e fondatore dell’Istituto di ricerca per la pace di Oslo, intervenendo alla conferenza internazionale sul “Giornalismo di pace” organizzata oggi in Vaticano e moderata da Helen Osman, presidente di Signis. “Siamo troppo intrappolati dall’idea delle notizie”, la denuncia dell’esperto, secondo il quale il compito di un giornalista di pace è “fare opera di mediazione, come ricerca delle cose positive e capacità di collegare il bene con il bene”. Per Galtung, comunque, non c’è contrapposizione tra “giornalismo di guerra” e “giornalismo di pace”: “L’uno non deve dominare l’altro, bisogna fare entrambi, ma i giornalisti devono avere un’immagine chiara della pace. In genere, invece, sono molto bravi a capire cos’è la violenza”. A parlare di giornalismo di pace come “giornalismo costruttivo” è stato Rey Sheng-Her, direttore della Tzu Chi Foundation, la più grande organizzazione buddista al mondo, tracciando il profilo del giornalista come “terapeuta sociale, in grado di fornire speranza alle persone” tramite la sua capacità di “non essere neutrale, ma empatico, di cercare la riconciliazione e non il conflitto, di trovare soluzioni e non soltanto di analizzare i problemi”. E proprio al “giornalismo costruttivo” si ispira l’esperienza di Media Association for Peace (Map), la prima organizzazione in Libano, Nord Africa e Medio Oriente specializzata su questo tema. “Il nostro obiettivo – ha spiegato la libanese Vanessa Bassil – è incoraggiare il rispetto dei diritti umani, la parità di genere, il dialogo, la riconciliazione, lo sviluppo sostenibile”. Tutto è nato dall’idea di offrire una formazione, a Beirut, a giovani giornalisti di un Paese, come il Libano, “ancora interessato da tensioni e conflitti, nonostante la guerra sia finita 30 anni fa”. In Libano ci sono due milioni di rifugiati a causa della guerra in Siria. Il Map è partito dai campi rifugiati per realizzare interviste in cui gli ospiti raccontano le loro storie positive di integrazione, in modo da “sensibilizzare l’opinione pubblica sul ruolo che i media possono svolgere in relazione alla pace”. Il campo delle migrazioni è anche l’ambito di un progetto di “NetOne”, una rete internazionale di giornalisti, cattolici e non, promossa dal movimento dei Focolari che ha deciso di affrontare “la deriva del problema migratorio, evidente soprattutto in Europa, proponendosi come mediatori, attori e promotori di dialogo nelle e tra le nostre società”, ha raccontato Stefania Tanasini, illustrando le caratteristiche del “giornalismo dialogico”, che “non è una scuola, è uno stile di vita e uno stile professionale”. “Non è sufficiente suscitare buonismo o un atteggiamento empatico, occorre sapersi calare nella pelle dell’altro”, ha detto Tanasini a proposito della prima caratteristica di questo tipo di giornalismo, che “è voce di un soggetto plurale, di una comunità di cui si è parte; a fronte di tanta prevalenza del virtuale, rivaluta la dimensione del reale del giornalismo, scendendo – dove è possibile, sul campo per andare nei luoghi delle crisi; valorizza il giornalista come mediatore sociale, ricompositore di dialogo e di relazione”. “NetOne” ha portato avanti progetti in tre Continenti – Europa, Medio Oriente e America Latina – e ha organizzato già 10 seminari itineranti nei luoghi delle crisi migratorie.