Migrazioni

Tunisia: arcivescovo Antoniazzi, “c’è un cimitero più grande del Mediterraneo, è il Sahara”

“Il Mediterraneo è un grande cimitero. Ma ce n’è uno più grande ancora: si chiama Sahara”. Lo dice in una intervista al Sir monsignor Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi. La Chiesa tunisina è uno dei pochi avamposti che aiutano i migranti sub-sahariani, di passaggio verso la Libia prima di imbarcarsi per la pericolosa traversata del Mediterraneo. “Se parte un barcone prima o poi si viene a sapere – osserva -. Ma tra tutti quelli che sono arrivati in Tunisia non sappiamo quanti sono morti di sete nel deserto, violentati e abbandonati. Sentire i loro racconti è terribile”.  Oggi in Tunisia “non ci sono più le partenze verso Lampedusa come una volta” perché  i controlli più severi. “I migranti arrivano da noi – racconta -, i trafficanti li accompagnano verso la frontiera con la Libia, lì trovano un’automobile che li porta fino al mare e aspettano la prima occasione – dopo uno o due mesi – per partire per l’Europa”. Però, rivela, “ci sono tanti piccoli porti al nord della Tunisia, in quelle cittadine i migranti lavorano per fare i soldi sufficienti per partire. Lì ogni tanto qualcuno parte ma non sappiamo se riescono ad arrivare. Ogni tanto la polizia ci chiama per dirci che ci sono morti annegati da seppellire”.

“Partono con l’idea che l’Europa sia il paradiso ma non possono più rientrare nel loro Paese – prosegue -. Anche se vedono i compagni morire annegati vogliono partire lo stesso. Non hanno il coraggio di tornare a casa dicendo ‘Ho avuto paura’. E’ un disonore. Per pagarsi il viaggio saltano fuori delle grosse somme che li costringono a vendere i campi e a volte perfino la casa. Se riflettessero un po’ di più capirebbero che nel loro Paese con la stessa somma farebbero un progetto”. Intanto, nell’ex campo profughi di Choucha, al confine con la Libia, abbandonate nel nulla ci sono ancora “circa 200 persone, soprattutto libici fedeli all’ex regime di Gheddafi e qualche africano sub-sahariano – riferisce -. Piuttosto che attraversare il deserto e tornare indietro rimangono lì, nella speranza che i tempi possano cambiare. Tra i pochissimi che possono andare ci sono i nostri sacerdoti della Caritas. Portano aiuti, cibo, vestiti. La polizia fa finta di non vederci”.