Uragano Donald

Non è infatti possibile non notare l’abisso concettuale che divide il discorso di Trump da quella o pronunciato in apertura del Forum di Davos dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen: due visioni opposte e poco conciliabili.

(Foto ANSA/SIR)

L’hurricane (uragano) è un frutto dell’oceano Atlantico: il nome viene dalla lingua caraibica e significa “dio del vento”. Come tale si è presentato Donald Trump, 47° presidente degli Usa al suo secondo mandato, tanto nella cerimonia di insediamento a Washington quanto collegandosi un paio di giorni dopo al ritrovo dei grandi della terra sui temi economici, il World Economic Forum di Davos in Svizzera. I toni sono stati forti, con raffiche di parole e concetti arditi, specie nei confronti di un’Europa che ha visto d’un colpo cambiare tutto quello che – in un immaginario collettivo che è però figlio della storia – gli Usa hanno rappresentato dal secondo conflitto mondiale in poi: un rapporto di vicinanza, alleanza, sostegno e anche simpatia che, con Trump, si adombra di nuvoloni neri.

The Donald è stato bruscamente diretto: una sorta di dichiarazione di guerra economica declinata su più fronti che vanno dall’imposizione di dazi sui prodotti che non siano Made in Usa (ovvero realizzati dagli o negli Stati Uniti d’America) alla bocciatura della pesante burocrazia europea, dall’invito ad alzare le spese militari fino al deciso allontanamento da quelle che ha definito “ridicole” politiche del new green deal (nuovo corso delle politiche verdi) per un ritorno deciso all’energia da fossili e al mercato delle auto non elettriche. A tutto ciò ha aggiunto la difesa a spada tratta dei colossi del digitale come Apple, Meta, Alphabet, Google contro i quali l’Europa si sarebbe comportata male per le tasse loro imposte. Se a queste frecce avvelenate si aggiungono quelle infuocate pronunciate a Washington (espulsione dei migranti, estensione federale della pena di morte, uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, uscita dagli accordi di Parigi sul clima) l’autoritratto di Trump in due soli discorsi è quanto mai attinente alle burrasche oceaniche.

Preoccupati si sono subito dimostrati i vescovi americani per la linea dimostrata sui migranti (esercito e rimpatri), sui temi bioetici, temendo per le categorie fragili della popolazione; ma anche l’Europa ha colto al volo la tempesta in arrivo.

Non è infatti possibile non notare l’abisso concettuale che divide il discorso di Trump da quella o pronunciato in apertura del Forum di Davos dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen: due visioni opposte e poco conciliabili.

La presidente ha messo in luce che l’Ue dovrà cambiare marcia, ma non cambiare anima. Se gli Usa chiudono i mercati imponendo dazi ai prodotti europei si cercheranno nuovi sbocchi commerciali, per una “globalizzazione più dinamica, inclusiva, e sostenibile” che comprenda India e Cina. Il tutto senza interrompere il dialogo con l’America dato che l’attuale scambio di merci si quantifica in 1,5 trilioni di dollari l’anno e salvaguardarlo conviene ad entrambe le sponde.

Resta aperta la questione della difesa miliare, tema discusso da tempo – specie dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – e di non facile soluzione in quanto fino a ieri la difesa andava sotto un ombrello chiamato Nato che, ad oggi, manifesta qualche falla e va rivisto.

Le parole più accorate della presidente sono quelle rivolte alla difesa delle politiche ambientali europee dato che, a suo dire, “gli accordi di Parigi continuano ad essere la migliore speranza di tutta l’umanità”. I disastri ambientali e i grandi sconvolgimenti climatici che colpiscono l’intero pianeta (dagli incendi alle tempeste) lo dicono chiaramente: porvi rimedio per tamponare il male fatto costa parecchio ma è doveroso e ha due vantaggi. Da una parte cercare di sanare il pianeta, mirando ad affievolire il meccanismo che induce gli eventi estremi (i quali fanno poi comunque sborsare esorbitanti per rimediare ai danni provocati); dall’altra lasciare un mondo migliore alle nuove generazioni.

Il tema dell’ambiente resta profondamente divisivo per le importanti ricadute sulle industrie e sulla vita dei cittadini e perché sul breve periodo è economicamente poco conveniente, tanto che le grandi nazioni produttive (Usa come Cina e India) fanno beatamente orecchie da mercante. Il futuro però passa da lì: come per il ciclone è meglio saperne la portata e agire pensando alla tutela di vite e di beni, piuttosto che chiudersi gli occhi e dover poi provvedere alla ricostruzione.

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