Non solo Rohingya, ma anche Karen, Hmong, Rakhíne, Shan, Akha: sono quasi due milioni i profughi fuggiti dal Myanmar (ex Birmania) che hanno trovato riparo in Thailandia. Se in passato fuggivano per il mix di nazionalismo birmano e buddismo theravada che la giunta militare che ha governato il Paese per 50 anni usava per mantenere il potere, adesso fuggono da una guerra civile che ha provocato una delle maggiori crisi umanitarie al mondo. “Sono intere famiglie ad attraversare il confine, senza documenti, senza soldi, senza niente, ricchi solo di una speranza difficile da comprendere – racconta padre Alessandro Brai, saveriano da 12 anni in Thailandia –. Cercano di inserirsi nella vita dei villaggi, si rendono disponibili a lavorare i campi, ma poi finiscono a vivere in baraccopoli in condizioni misere”.
In cammino verso i profughi. Da “Km 48”, la località in cui sorge la parrocchia di San Giuseppe Lavoratore, così chiamata perché dista 48 chilometri dalla città più vicina, quella di Mae Sot, padre Alex ogni giorno si mette in viaggio per raggiungere i villaggi al confine con il Myanmar dove è maggiore la presenza di profughi. Cibabo, Pakka Mai, Pawuai, Padhi, Baan 5, Baan 10 e Baan 14: alcune delle località dove si reca per portare conforto, prendersi cura dei malati e offrire un’istruzione ai più giovani. Nel campo profughi di Umpiem, invece, uno dei sei rimasti lungo il confine, si reca per celebrare l’eucaristia. “Loro sono in migliaia e noi facciamo il possibile per far fronte ai bisogni primari e provvedere al cibo, alle medicine, ai vestiti – prosegue padre Alex –. Cerchiamo di inserirli nella vita dei villaggi e di avviare i bambini allo studio, ma nelle scuole thailandesi è sempre più difficile, per questo stiamo pensando di acquistare un terreno dove costruire un centro in cui possano studiare e ricevere una formazione adeguata”.
Manodopera sfruttata. In una società che considera le minoranze birmane alla stregua di popoli inferiori, i saveriani lavorano per promuoverne l’uguaglianza, la dignità e l’integrazione. Arrivata in Thailandia nel 2012, la Pia Società di San Francesco Saverio per le Missioni estere è presente anche a Umphang (diocesi di Nakhonsawan), dove ha avviato un centro che accoglie e avvia allo studio una trentina di ragazzi in difficoltà, e nella baraccopoli di Khlong Teoi, al porto di Bangkok, una città nella città con 44 grandi quartieri e oltre 100mila persone. Se il governo thailandese lascia entrare i profughi sul proprio territorio senza opporre grosse resistenze – considerato il bisogno di manodopera in agricoltura e nell’industria – e permette loro anche di stabilirsi nei rifugi informali sorti lungo il confine, le autorità impongono però severe restrizioni ai loro movimenti e all’ingresso degli aiuti umanitari. La Thailandia, infatti, non ha aderito alla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e non dispone di un quadro giuridico per la protezione dei richiedenti asilo. Per questo la gran parte di loro rimane bloccata in Thailandia in una sorta di limbo amministrativo, e senza la possibilità di emigrare verso Paesi terzi. “La Thailandia è un po’ come tanti Paesi dell’Asia, una terra di grandi contrasti, ricchezza e povertà, apertura ma anche chiusura, regola e corruzione, valori e disvalori arrivati con la globalizzazione. Questi contrasti li viviamo nella vita di tutti i giorni nella missione che portiamo avanti, perché incontriamo povertà, droga, prostituzione, turismo sessuale, tante famiglie indebitate, anche quelle che apparentemente sembrano stare bene. Paese ricco e povero, avanzato per alcuni aspetti, ma arretrato per altri”.
I bambini della baraccopoli di Klong Toei. Contrasti che conosce molto bene padre Alex. Per otto anni ha vissuto in quell’enorme conglomerato urbano di Klong Toei, dove fra baracche di lamiera e legno convivono 100mila persone di 30 diverse comunità etniche, condividendo in tutto e per tutto la vita dei suoi residenti. “Dopo il mio arrivo non ho dormito per tre giorni – ricorda il missionario –. Mi dicevo come posso io dormire sapendo che ci sono tanti bambini che non si sa come passeranno la notte. Abbiamo quindi iniziato un cammino di conoscenza della baraccopoli, e poi avviato progetti per l’educazione dei bambini, il sostegno alla loro scolarità, l’accompagnamento dei malati, la costruzione di case o di bagni per chi ne aveva bisogno, la formazione degli adulti, spesso lasciati a loro stessi, e la realizzazione di interventi legati allo sport o alla musica”.
I due volti della Chiesa. Duplice l’immagine che i thailandesi hanno del cristianesimo e del cattolicesimo (rispettivamente 1% e 0,5% della popolazione). C’è l’immagine di una Chiesa ricca e benestante, impegnata soprattutto nel campo dell’istruzione e della sanità, perché all’arrivo dei francesi – circa 350 anni fa – non essendoci ancora la libertà di culto, quello che hanno fatto è stato di costruire scuole e ospedali, che sono ancora presenti nel Paese e sono tra le strutture migliori della Thailandia. E c’è l’immagine di una Chiesa impegnata nel sociale, vicina ai poveri e agli emarginati, una presenza amata e apprezzata per quello che sta facendo con la gente in tanti contesti difficili. “Oggi la sfida più importante per la missione è ricordare che siamo tutti a servizio della missione di Gesù, che non siamo qui per mostrare qualcosa, o per raggiungere chissà quali risultati – chiude il religioso –. Ricordare che Lui è il protagonista e che ci guida lo Spirito Santo. I documenti della Chiesa lo dicono chiaramente, il vero protagonista della missione è lo Spirito Santo, e noi siamo chiamati a metterci in gioco, confrontarsi con gli altri, unire le forze per l’unico obiettivo che è quello di servire i nostri fratelli in Cristo”.
(*) Popoli e Missione