Il 7 ottobre 2023, Hamas attaccava Israele con un’operazione terroristica senza precedenti condotta da terra, dal mare e dal cielo, provocando la morte di 1200 ebrei, tra civili e soldati, facendo scempio di uomini, donne, bambini, anziani che abitavano nei kibbutz e nelle città vicine al confine, come Sderot. Quello stesso giorno vennero prese in ostaggio 250 persone. Di queste 101 sono ancora nelle mani di Hamas. Pochi giorni dopo l’esercito di Israele (Idf) invadeva Gaza causando fino ad oggi, tra i palestinesi, oltre 41.500 morti, più di 96mila feriti (bilancio in aggiornamento) e la distruzione di quartieri, strade, scuole, ospedali.
Senza esito, finora, i negoziati, mediati da Usa, Qatar ed Egitto, per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. A distanza di un anno il conflitto si è allargato al Libano, contro Hezbollah. Con Claudio Bertolotti, esperto dell’Ispi e direttore di Start InSight (http://www.startinsight.eu), abbiamo analizzato questi 12 mesi di guerra.
Direttore, a che punto è questa guerra tra Hamas o Israele?
A distanza di un anno, né Israele, né Hamas escono bene da questa guerra, sebbene entrambi abbiano conseguito dei risultati militari sul campo. Israele ha occupato la Striscia di Gaza, riducendo, con buona probabilità, a un terzo quelle che erano le capacità belliche iniziali di Hamas e ha dimostrato di essere in grado di decapitarne anche la leadership. E questo è un successo. D’altro canto, va anche evidenziato che Israele è riuscito a liberare solo pochi ostaggi attraverso operazioni militari. La maggior parte di quelli tornati a casa sono stati liberati a seguito di un accordo temporaneo che è stato vantaggioso per entrambe le parti. Hamas, da un punto di vista militare, ha ottenuto il grande successo di resistere. La sua organizzazione, anche se molto provata, è rimasta ancora in vita e si sta riorganizzando. Guardando oltre questo anno di guerra, io credo che Hamas potrebbe addirittura ottenere un maggiore sostegno popolare se il conflitto in corso dovesse trasformarsi in una guerra insurrezionale che sarebbe lo scenario peggiore, tra quelli immaginabili, perché costringerebbe Israele ad affrontare le stesse difficoltà incontrate dagli Usa e dalla coalizione da loro guidata in Afghanistan e in Iraq.
Ostaggi: fino ad oggi, nonostante la mediazione di Usa, Egitto e Qatar, non si è riusciti a trovare un nuovo accordo per riportarli a casa. Perché?
Io credo che, a questo punto, il governo Netanyahu non possa tornare indietro, tanto per una questione di opportunità politica, quanto perché sul campo di battaglia, come dicevo prima, Israele ha ottenuto le sue vittorie. Precisiamo: non è la vittoria e non è il raggiungimento degli obiettivi che si era prefissato ma lo Stato ebraico si trova nelle condizioni di poterli raggiungere.
Io temo che gli ostaggi si siano trasformati da obiettivo prioritario a eventuale strumento politico da ‘riproporre’ come prezzo pagato per la liberazione dal terrorismo.
I fatti del 7 ottobre hanno sfatato il mito della sicurezza di Israele. Questo lo si può considerare una sconfitta?
Il 7 ottobre è l’11 settembre degli israeliani. È un dramma emotivo che ha fatto riemergere la paura radicata nella popolazione israeliana e che ha spinto Israele a costruire una serie di barriere difensive, ad adottare il sistema Iron Dome, e quindi a spendere molto in termini di sicurezza.
Il 7 ottobre si è sopravvalutato un sistema di sorveglianza che doveva essere invincibile e inespugnabile e che invece si è dimostrato essere estremamente vulnerabile.
Quindi un ‘11 settembre’ al quale seguirà una rivoluzione in termini di riorganizzazione del sistema di sicurezza complessivo per evitare il ripetersi fatti del genere.
Oltre che a Gaza, occupata e praticamente distrutta con una gravissima crisi umanitaria in atto, Israele è impegnato militarmente anche in Cisgiordania e in Libano, contro Hezbollah. Per quanto ancora Israele potrà sostenere il peso economico di questa guerra?
Di questo peso Israele se n’è reso conto subito, sin dai primi mesi di guerra, con la chiamata di 360mila riservisti, la più grande mobilitazione mai fatta da Israele, che ha tolto dal tessuto produttivo molti lavoratori. Questo ha avuto un impatto fortemente negativo sull’economia israeliana, tant’è che già a dicembre 2023 molte di quelle unità mobilitate sono state ‘smobilitate’. Questa è una guerra che ha un costo in termini di Pil (prodotto interno lordo), il cui impatto il governo israeliano sta cercando di contenere riducendo il numero delle truppe. Ma va anche ricordato che il costo effettivo della guerra è coperto in modo sostanzioso dagli Usa che sostengono Israele ‘senza se e senza ma’ indipendentemente dal colore dell’amministrazione che siede alla Casa Bianca.
In guerra contro Israele, in questi mesi Hamas sembra essersi accreditato come l’unico difensore rimasto della causa palestinese. Il sostegno popolare di cui parlava poco fa potrebbe arrivare anche dai palestinesi di Cisgiordania governata dal presidente Abu Mazen e dal suo partito Al-Fatah?
Al-Fatah sta facendo un grande sforzo per non rimanere coinvolto nelle dinamiche politiche di Hamas, perché sarebbe l’abbraccio della morte che ne decreterebbe la fine. Tuttavia, non prendendo posizione aperta contro Israele,
Al-Fatah si dimostra sempre più lontano dalle istanze e dalle ambizioni della popolazione palestinese.
Ciò potrebbe spingere – e questo è un rischio concreto – i delusi del partito a sposare la causa di Hamas, non tanto a Gaza, ma più pericolosamente in Cisgiordania, proprio dove Hamas ambisce ad aprire un altro fronte di guerra che potrebbe spingere Israele a disimpegnare le truppe da Gaza, costringendolo a un’uscita forzata o addirittura ad un maggiore impegno militare, che certo non gioverebbe alla popolarità dello Stato ebraico sul piano internazionale. Questa guerra ha messo ancora di più in ginocchio la già debole economia palestinese con decine di migliaia di lavoratori palestinesi che hanno perso il lavoro. Inoltre, l’occupazione militare, le violenze dei coloni, il malcontento popolare fanno crescere rabbia e frustrazione tra i palestinesi e creare terreno fertile per le ideologie violente.
Si è alzato il livello dello scontro al confine con il Libano, tra Hezbollah e Israele, come confermano l’uccisione del numero uno del Partito di Dio, Hassan Nasrallah e le operazioni terrestri delle forze israeliane. Siamo davanti ad un cambio di strategia: dal contenere militarmente Hezbollah allo smantellamento totale?
Parlerei di azione preventiva israeliana per ridurre l’impatto dell’aggressione esterna. Per Israele Hezbollah rappresenta una minaccia ‘contenibile’. Il problema, però, è che tutti gli attori di prossimità a supporto dell’Iran messi insieme possono essere pericolosi per Israele, in particolar modo per quanto riguarda il rischio di saturazione della capacità del sistema Iron Dome, che davanti ad un alto numero di missili e razzi lanciati potrebbe non essere più efficace. A fronte del rischio di un’altra rappresaglia da parte dell’Iran e di una concomitante azione da parte di Hezbollah e degli altri attori minori a livello regionale, compresi gli Houti, credo che la scelta razionale di ridurre la minaccia di Hezbollah rientri nella più ampia intenzione di evitare di essere un obiettivo vulnerabile per il cosiddetto Asse della Resistenza (sostenuto dall’Iran, che comprende Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e vari gruppi armati sciiti in Iraq e Siria, ndr.).
Quanto incide sugli equilibri del conflitto la morte di Nasrallah?
Con l’uccisione del suo leader, Nasrallah, Hezbollah si è dimostrata estremamente vulnerabile e politicamente priva di interlocutori di alto livello che aveva prima. È un’organizzazione che deve essere totalmente ricostruita, cosa che richiederà del tempo.
Quale impatto sta avendo il ‘7 ottobre 2023’ sull’intero Medio Oriente?
Io credo che il 7 ottobre sia soltanto una pausa in quel naturale, e ormai fisiologico, processo di normalizzazione che vedrà stabilire solide relazioni diplomatiche fra i Paesi arabi, in primis l’Arabia Saudita, con Israele in linea con quelli che sono gli accordi di Abramo.
L’Arabia Saudita ha dimostrato di essere ancora intenzionata a portare avanti questo processo di riconoscimento reciproco. E non potrebbe essere diversamente. Gli equilibri, così come sono oggi, stante anche l’ambizione violenta dell’Iran, non possono più reggere e rischiano di portare a un conflitto. Il 7 ottobre si inserisce proprio nel tentativo di bloccare quegli accordi negoziali, spingendo Israele a una reazione spropositata. Reazione che c’è stata, ma che però non ha ottenuto l’effetto desiderato da Teheran.
Con il 7 ottobre 2023, può dirsi sepolta la speranza in una soluzione al conflitto israelo-palestinese? Quella dei ‘Due Popoli, Due Stati’ resta ancora un’opzione percorribile?
Su un piano teorico rimango realista e vagamente ottimista. L’opzione dei due Stati è sul tavolo, non è stata esclusa. Il problema è: quale Stato palestinese, quale leadership e quali confini. Le incognite sono molte a partire dalla pretesa israeliana di impedire ai palestinesi di dotarsi di un proprio strumento militare, legittimo per qualunque Stato, dalla volontà di Hamas, espressa anche nel suo statuto, di eliminare lo Stato di Israele. Per non parlare della mancanza di confini certi per un futuro Stato palestinese, visto l’alto numero di colonie costruite da Israele in questi anni nei Territori palestinesi.