Sospensione, paura, fuga, diffidenza. E a trovarsi in mezzo a questa situazione sono soprattutto “le persone in fuga da guerre e povertà, che erano già a rischio e si ritrovano oggi ancora nel rischio”. E’ Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, a raccontare al Sir l’altro “volto” degli attacchi israeliani in Libano, quello dei profughi siriani e palestinesi che avevano raggiunto il Libano in cerca di sicurezza ma che ora si ritrovano in situazione di emergenza e rischio. A loro si aggiungono le migliaia di libanesi in fuga dal Sud del Paese o dai quartieri a rischio. Ed è il caos. Mediterranean Hope è un progetto della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. “Noi in Libano – spiega Bernardini – siamo andati per seguire il progetto dei corridoi umanitari che insieme alla Tavola Valdese e alla Comunità di Sant’Egidio, abbiamo storicamente per la prima volta avviato nel 2016. All’interno del progetto nasce Medical Hope, un’iniziativa di carattere sanitario che fornisce sostegno medico a tutte quelle persone, profughi ma anche locali in stato di necessità. La nostra base principale è nel quartiere di Geitawi, a sud di Beirut da cui poi chiaramente ci muoviamo in diverse altre aree del Libano, per seguire sia i profughi che poi viaggiano con i corridoi umanitari, sia in pazienti che seguiamo con Medical Hope. Chiaramente in questa fase di attacchi e evacuazione, è molto più difficile operare. I profughi rifugiati siriani, come storicamente quelli palestinesi, vivevano già in condizioni molto precarie. In questa fase lo sono ancora di più. Molte persone stanno lasciando le loro abitazioni di fortuna per cercare zone più sicure dove vivere. Ma questo flusso si unisce alle tantissime persone libanesi in movimento”.
Ci sono inoltre quartieri che non sono sicuri. È stato colpito nei giorni scorsi il quartiere di Dahieh, a Sud della capitale Beirut. “La preoccupazione – racconta Bernardini – è salita molto perché abbiamo alcuni collaboratori che abitano in quel quartiere e che hanno dovuto spostarsi. Anche il lavoro sanitario è complesso, con le centinaia di feriti che ci sono stati nei giorni scorsi”.
“Sta aumentando anche la diffidenza e la paura verso le persone che si stanno spostando. Si teme che possano essere possibili target o che possano comunque trovarsi vicino a possibili target. Alla difficoltà di mettersi in fuga, si aggiunge quindi la difficoltà di essere accolti nei quartieri che per adesso non sono stati colpiti”.
Essere profughi siriani in Libano oggi significa essere profughi due volte. “Per alcuni oltre tutto si tratta anche di rivivere quello che hanno vissuto quando sono fuggiti dalla Siria”, racconta Bernardini. “Sono spesso persone che già soffrono di alcune patologie, come disturbi di stress post traumatico e rivivere questi attacchi – i droni, i bombardamenti, i suoni – sta creando un disagio anche psicologico perché fa riemergere momenti drammatici della loro stessa storia. Sono famiglie con bambini e bambine. Che non hanno un posto sicuro e stabile dove stare. Oltre tutto abbiamo visto in questi giorni situazioni di contro esodo, persone cioè che si stanno spostando in Siria perché in questo momento il Libano è in situazione di guerra”. Le informazioni sono confuse. “Siamo nel pieno dell’emergenza”, osserva Bernardini. “Ci sono giorni di paura e tensione altissima e altri in cui tutto si normalizza. E’ anche un logoramento psicologico. Quando c’è stato l’attacco ai walkie talkie, la gente lanciava i telefonini o gli orologi per terra pensando che potevano saltare anche quelli. Fa parte anche questo di una strategia capillare di violenza e di guerra diffusa”.
E’ in programma per metà ottobre la partenza proprio dal Libano di un corridoio umanitario per l’Italia. “Parliamo ancora al presente, perché finché partono i voli, noi speriamo che tutto si potrà fare. Stiamo andando avanti con il nostro lavoro, con tutte le procedure necessarie e al momento non abbiamo indicazioni differenti”. A partire saranno come sempre profughi siriani. “È però da segnalare che con gli ultimi giorni iniziano a circolare delle richieste di aiuto anche per persone libanesi che sono spaventate e preoccupate e che ci chiedono la possibilità di spostarsi”.
Ma come operatori, come state vivendo questa situazione? “Sicuramente con molta preoccupazione”, risponde la coordinatrice di Mediterranean Hope. “Abbiamo operatori e operatrici che vivono in Libano. Significa quindi che in questi anni si sono costruiti legami e abbiamo cominciato a sentire quel paese come casa nostra. Sapere che in questo momento è sotto attacco, genera grande difficoltà e preoccupazione. Siamo quindi feriti ance noi nel vedere quello che sta accadendo. Ma più di tutto per noi è importantissimo continuare a poter dare una mano in tutti i modi che possiamo, alle persone con cui da anni collaboriamo e assistiamo”. Segno della gravità della situazione è la decisione presa dall’organizzazione di far rientrare per ora gli operatori italiani in Italia. “E’ stata purtroppo una scelta sofferta ma pensiamo che per poter continuare ad essere presenti, dobbiamo dare priorità alla nostra integrità, perché altrimenti non siamo d’aiuto a nessuno. Continuiamo però a lavorare a distanza e in collaborazione con chi continua a stare lì e coordinato con noi continua a operare”.