È ancora provvisorio il bilancio delle vittime delle inondazioni e degli smottamenti causati dal tifone Yagi in Myanmar. Almeno 113 persone sono morte e 64 sono scomparse a causa delle inondazioni, mentre il numero degli sfollati supera i 320.000, secondo gli ultimi dati ufficiali. Si teme però che i dati reali siano ben più drammatici, tenuto conto delle difficoltà riscontrate dalle autorità nel raccogliere informazioni dai territori colpiti. Numerose immagini e video sono stati pubblicati sui social network. Alcuni filmati mostrano i soccorritori al lavoro nel tentativo di salvare le persone rimaste intrappolate. Ci sono segnalazioni secondo cui decine di lavoratori migranti nelle aree minerarie dell’oro nella regione centrale di Mandalay sono dispersi a causa di frane. Che la situazione sia particolarmente critica, è data dal fatto che per la prima volta, il capo della giunta del Myanmar ha presentato una rara richiesta di aiuti ai paesi stranieri per il salvataggio e il soccorso alle vittime. “Il tifone ha colpito soprattutto le pianure”, racconta Fabrizio Consorti, presidente di Opam, l’Opera di Promozione della Alfabetizzazione nel Mondo, che in Myanmar sostiene alcuni progetti. “Dopo il Vietnam, il Laos, la Thailandia è arrivato in Myanmar dove, a giudicare dalle mappe satellitari, è stato derubricato a tempesta tropicale con venti più bassi ma fortissime piogge. Le zone in cui noi interveniamo sono in montagna e nella foresta nell’Est del paese, nello Shan e a Loikaw. Paradossalmente la foresta e le zone in montagna hanno protetto la popolazione. Questo però non significa che una pioggia tropicale torrenziale in una situazione in cui già sei baraccato e oltre tutto ti bombardano le baracche, non comporti una situazione di forte disagio”.
Cosa vi raccontano i vostri referenti locali?
Colpiscono sistematicamente i piccoli villaggi dove ci sono scuole e avendo distrutto quasi tutto quello che potevano distruggere nell’Est del paese, adesso bombardano i campi profughi dove con grande fatica, anche con l’aiuto dell’OPAM, sono state ricostruite delle scuole. Con questo tipo di attacchi, abbiamo l’impressione che si voglia produrre una generazione di analfabeti che poi saranno più facilmente controllabili. A febbraio hanno lanciato contro una scuola un colpo di mortaio. E anche pochi giorni fa, il 6 settembre, hanno bombardato dal cielo alle 2 di notte, un campo profughi, deliberatamente per coglierli, mentre dormivano dentro le baracche. Anche stavolta è andata completamente distrutta la scuola. Localmente si rimboccheranno le maniche per rimetterla in piedi, anche con il nostro aiuto. Abbiamo una foto di una ragazza di 12 anni che su un mucchio di macerie sta raccogliendo e mettendo in salvo i pochi libri scolastici rimasti illesi. Attorno a lei rottami e macerie e ora anche il fango della pioggia. Ognuno si sceglie la sua barricata, l’Opam ha scelto di sostenere l’alfabetizzazione e l’istruzione come mezzo per contribuire a sostenere un mondo più giusto.
Ci racconti la vita dei bambini e dei ragazzi in Myanmar, soprattutto nelle zone più colpite?
Sfollati dai loro villaggi, vivono la vita che si vive nei campi profughi, quindi nella totale dipendenza dagli aiuti esterni. La popolazione non ha più campi da coltivare, non ha più mezzi propri per produrre reddito. La loro è una vita civile ridotta ai minimi termini e una vita sociale resa possibile solo grazie all’aiuto delle associazioni umanitarie e degli operatori, che garantiscono la distribuzione di acqua potabile e di viveri e, laddove si riesce, anche percorsi di istruzione. Nei campi ci sono soprattutto donne, bambine e bambini , anziani. Gli uomini o sono stati reclutati dall’esercito o sono impegnati nelle formazioni dei ribelli. C’è poi un problema etnico e di discriminazione che probabilmente è alla ridice del conflitto. Se si guarda la carta geografica del Myanmar, relativa alla distribuzione delle lingue e dei dialetti, ci si accorge che nell’Est del paese non si parla il birmano, ma altre lingue tribali.
In Myanmar, l’Opam cosa sta facendo? Perché è importante alfabetizzare le nuove generazioni?
Noi avevamo un progetto abbastanza forte a Loikaw, che è una città grande, un capoluogo di regione. Ma Loikaw è ormai completamente distrutta. La cattedrale, per esempio, è stabilmente occupata dall’esercito. Il vescovo è dovuto scappare e vive in una parrocchia nei dintorni. Per questo motivo, abbiamo cominciato ad assistere le piccole scuole di villaggio e centri di formazione nei campi profughi. Il nostro aiuto consiste fondamentalmente nell’invio di denaro che con percorsi molto tortuosi, consente a queste persone di acquistare materiali didattici e pagare i dipendenti. Perché l’alfabetizzazione? Perché se non sai leggere e scrivere, sei fuori dal mondo e non puoi neanche raccontare quello che ti succede. Sei condannato al silenzio o a rimanere ancorato alla tradizione orale che seppur importantissima non permette un passo avanti verso la vera integrazione. Senza una alfabetizzazione e una istruzione, il popolo rischia di rimanere segregato, schiacciato, sfruttato, represso. Pezzi di umanità che spariranno piano piano per sempre. Se dovesse succedere, ne usciremo tutti più poveri. E’ il concetto chiave della reciprocità fra Nord e Sud del mondo. Non siamo noi i buoni che fanno l’elemosina ai poveri. Siamo gruppi diversi che entrano in relazione e si arricchiscono vicendevolmente. Se dovessimo perdere quelle storie, perché non le sanno scrivere, avremo perso un grande pezzo dell’anima del pianeta terra.
Myanmar dimenticato. Se ne parla troppo poco.
Se ne parla pochissimo. Occorre ogni giorno dare notizia su ogni singola fucilata che è stata tirata ma ci siamo scordati dello Yemen, del Sudan, del Myanmar e dei cento altri focolai di quella che già anni fa Papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale in corso ma sparsa in giro per il pianeta.
Se non fosse per il Papa, tante situazioni rimarrebbero chiuse in un silenzio assordante. Quanto è importante la voce del Santo Padre?
È importantissima. Credo sia veramente l’unica voce che oggi nel mondo può permettersi di attraversare il pianeta, arrivare nel paese musulmano più grande del mondo, l’Indonesia, e ricevere l’abbraccio e il bacio di un imam. Stiamo parlando veramente di una presenza fondamentale. E lui, con caparbia ostinazione, tutte le domeniche all’Angelus, rinnova il suo appello, potentissimo, che non può lasciare indifferenti.