R.D. Congo. Thérèse Mema Mapenzi: “Così aiutiamo le donne discriminate e vittime di violenze sessuali”

A Bukavu, nella Repubblica democratica del Congo, sulle sponde del lago Kivu, opera da tanti anni il Centro Olame, struttura storica dell’arcidiocesi. Il territorio del Sud Kivu, al confine con il Rwanda, è stato per oltre 25 anni scenario di guerra. Qui le donne vengono aiutate ad emanciparsi economicamente e socialmente. L’ambito più delicato è quello della prevenzione delle violenze sessuali e protezione delle vittime di stupri. Il centro aiuta anche le donne molto povere falsamente accusate di stregoneria, che rischiano di essere linciate dalla folla. Intervista alla direttrice del Centro Olame

Vive ogni giorno a contatto con storie drammatiche di donne che hanno subìto violenze sessuali durante il conflitto o in famiglia. Donne accusate di stregoneria che rischiano di essere arse vive. Che non hanno diritto a continuare gli studi, ad un lavoro. Le stesse donne che ora vogliono affrontare il trauma subito e ricostruire la propria vita, emanciparsi e diventare autonome. Lei è Thérèse Mema Mapenzi, la direttrice del Centro Olame di Bukavu, nella Repubblica democratica del Congo. Il centro è una struttura storica dell’arcidiocesi di Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu, sulla riva occidentale del Lago Kivu. In 63 anni ha realizzato 5.676 progetti. Il territorio del Sud Kivu, al confine con il Rwanda, è stato per oltre 25 anni scenario di guerra. “Ora siamo nel periodo post-bellico – racconta al Sir – ma nelle zone periferiche di Bukavu ci sono ancora i ribelli del movimento M23. C’è tanta crisi economica e povertà, la popolazione vive tra mille difficoltà”.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

Il 70% delle persone aiutate dal Centro Olame sono donne e giovani.  “Qui le donne venivano emarginate – spiega -, non avevano diritto all’istruzione e nemmeno all’eredità. Erano sopraffatte dalla cultura e da pratiche che le discriminavano. E loro stesse consideravano tutto questo normale, accettabile”.  La prassi è che una ragazza, raggiunti i 18 anni, deve sposarsi e abbandonare gli studi. “In realtà si sposa con la famiglia di suo marito. Lui le dice di non studiare né lavorare”. Nel focolare domestico si creano spesso situazione spiacevoli, con mariti frustrati che non lavorano e maltrattano le mogli. Se una donna divorzia, ha così enormi difficoltà nella sopravvivenza quotidiana, anche perché deve prendersi cura dei figli. Il centro ha programmi di protezione per queste donne, organizza azioni di sensibilizzazione e di formazione tramite i media o attraverso convegni. “Non è normale che le donne si sposino senza aver terminato gli studi – afferma -.

Le donne devono lavorare, devono avere il loro reddito per capire, per decidere”.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

Le Comunità di risparmio e credito interno. Thèrese è orgogliosa soprattutto del programma di promozione socio-economica destinato a donne e ragazze. Formano piccoli gruppi di 25/30 persone chiamati “Comunità di risparmio e credito interno”. Siccome normalmente le donne non hanno accesso al credito bancario perché non hanno nulla da ipotecare, tramite il gruppo riescono ad acquistare quote a prezzi molto bassi (da 1.000 a 5.000 franchi congolesi). Da questo fondo cassa possono chiedere un prestito che ripagheranno con interessi ragionevoli. “Questi soldi aiutano le donne a finanziare le proprie attività.

Oggi esistono più di 500 Comunità di risparmio e credito interno che aiutano le donne ad avere le risorse necessarie”.

Il centro organizza la formazione e sostiene i gruppi per due anni, fino a che diventano autonomi. “Se il sistema continua bene tra 10 anni ci saranno molte donne con redditi più alti che finanziano le proprie attività attraverso i gruppi”.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

Prevenzione e protezione delle vittime di stupri di guerra. L’ambito più delicato è quello della prevenzione dalle violenze sessuali e protezione delle vittime di stupri. Il centro fa attività di sensibilizzazione e fornisce assistenza psicologica e sociale.

“Abbiamo in carico molte donne sfollate che hanno subito abusi e stupri da parte dei gruppi armati durante la guerra

e che hanno ancora problemi. Le ascoltiamo, facciamo con loro laboratori di arteterapia e ‘socioterapia’, riunendole in piccoli gruppi. In questo modo la comunità si prende cura di se stessa. Una volta assicurata la guarigione mentale le donne possono organizzare altre attività”. In questo periodo hanno molti casi di donne violentate durante i conflitti armati che hanno contratto il virus Hiv-Aids, oppure sviluppato tumori alla cervice e all’utero a causa delle infezioni.  “Ci prendiamo cura di loro, forniamo assistenza medica”. Il centro lavora anche con le organizzazioni sanitarie, per incoraggiare le donne a registrarsi per l’assicurazione sanitaria, perché possano curarsi se si ammalano. “Le assicurazioni non sono ancora ben accette nei villaggi, ma è una piccola soluzione”.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

Le violenze sessuali sono all’ordine del giorno anche a livello domestico o per strada. “Alcune donne allattano in pubblico o camminano da sole nelle campagne, in posti isolati e non sicuri. La sera fanno piccoli commerci e quando tornano a casa subiscono abusi.  Cerchiamo di informarle sui pericoli, invitandole a non camminare di notte, a non esporsi”.

Le false accuse di stregoneria. Poi ci sono le donne falsamente accusate di stregoneria, spesso perché molto povere ed emarginate. Rischiano la vita. Ci sono casi di donne a cui è stato dato fuoco.  “Sporgiamo denuncia alla polizia, difendiamo i loro diritti e le accompagniamo psicologicamente. Parliamo con i capi villaggio, i leader, le comunità, perché non le maltrattino più”. E le donne che si lasciano sfruttare sessualmente per trovare qualcosa da mangiare. “Non sono vere prostitute, per loro è l’unico modo per sfamare la famiglia. Noi cerchiamo di incontrarle e aiutarle”. Non sempre le storie finiscono bene. Una donna che aveva subito minacce è andata a cercare aiuto al centro, ha raccontato il suo problema, non voleva più tornare al suo villaggio. Ma lì non potevano ospitarla. È tornata al villaggio ed è stata uccisa.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

“Lavorare con traumi così grandi è difficile, ogni giorno ci sono problemi e persone in difficoltà. Quando non possiamo fare niente per proteggerle è dura – ammette -. Però

troviamo la forza quando qualcuna di loro ci ringrazia perché è diventata forte e autonoma grazie a noi.

O quando incontriamo chi comprende l’importanza del nostro lavoro”. Un grande ristoro, confida Thérèse, è tornare a casa stanca la sera, in famiglia, “e tua figlia ti chiede se può prepararti qualcosa di caldo. C’è qualcuno che si prende cura di te e ti incoraggia ad andare avanti.  Nonostante le sfide tutto questo ci dà ancora una volta speranza. Sono fiera del nostro lavoro”. A sua volta la direttrice del Centro Olame non smette di incoraggiare le donne di Bukavu a lottare per scoprire la loro forza, a “lavorare per rendersi autonome, educare i figli all’uguaglianza di genere e continuare a sognare.

Se iniziamo a farlo ora, in futuro potremo ridurre la violenza sulle donne fino all’80 %”.

(foto: Thérèse Mema Mapenzi)

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