Quando nel 2004 la Corte internazionale di giustizia (Cig) intervenne, con un parere consultivo, riguardante la costruzione del “Muro” nei Territori occupati da Israele in Palestina, la situazione di quell’area era letta attraverso un obiettivo fondamentale, che sembrava, allora, percorribile. Quello cioè di ribadire anzitutto gli obblighi che ricadono su una potenza militare occupante nei confronti della popolazione civile che nei luoghi occupati risiede nella sua identità e vita quotidiana. A sorreggere tale richiamo, la Cig richiamava non solo le indicazioni della IV Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione della popolazione civile in caso di conflitto, ma anche l’idea che il rispetto dei territori nella loro autonomia avrebbero costituito la base anche materiale per dar vita ad un nuovo Stato. Si andava cioè a dare ulteriore spessore e concretezza a quell’idea maturata e sintetizzata dalla formula “due popoli, due Stati”.
La pronuncia del 19 luglio, anch’essa nella forma di parere consultivo e cioè di un atto che non ha la pretesa di stabilire conseguenze obbliganti ed operative, ma che costituisce un’opinione condivisa dal più alto organo di giustizia operante a livello mondiale. E questo è la Corte internazionale di giustizia, la cui autorevolezza resta indipendente dal torpore che gli Stati membri hanno imposto all’Onu in questa fase.
Il nuovo parere, richiesto dall’Assemblea generale nel dicembre 2022, contiene le stesse premesse del parere del 2004 per chiedere un’inversione rotta. E questa volta attraverso la questione degli insediamenti di coloni israeliani nella Cisgiordania e nelle aree occupate da Israele, fornisce il quadro di come le acquisizioni del diritto internazionale che la Comunità delle nazioni ha elaborato a partire dagli orrori della Seconda guerra mondiale, può dare all’oggi dell’area mediorientale e della Palestina in particolare.
Il parere della Corte, intervenuto mentre si attende una soluzione giudiziaria – mediante sentenza questa volta – alla denuncia del Sudafrica per l’intervento militare nella Striscia di Gaza da parte dell’esercito di Tel Aviv, apre la strada ad una più ampia riflessione che va oltre il conflitto in atto nella Striscia, per allargarsi a considerare la condizione di tutti i Territori occupati. Il ragionamento della Corte, come in casi analoghi è centrato su quanto esprime oggi il diritto internazionale anche in caso di conflitto, domandando coerenti comportamenti. Lo ius in bello, infatti, tradotto anche nelle disposizioni della IV Convenzione di Ginevra in particolare il suo articolo 49, impone ad ogni Stato che occupa militarmente un territorio non proprio ovvero fuori da confini politici definiti e generalmente riconosciuti, di rispettare alcune regole di base che ne impediscono essenzialmente il mutamento etnico e i trasferimenti forzati di popolazione.
Non si tratta dunque di una protezione che può essere garantita dal lancio di volantini che impongono ai residenti su un territorio occupato militarmente o sul quale cui si svolge l’azione bellica, di spostarsi forzatamente o di lasciare spazio alle forze dell’occupante – è il caso della Cisgiordania – ad insediamenti abitativi e di controllo di terreni e risorse naturali da parte di civili o gruppi di coloni che sono espressione della potenza militare occupante.
Per chi ne conosce il lavoro – che si muove su una linea tracciata sin dal parere sulle Comunità minoritarie greco bulgare redatto dalla vecchia Corte permanente di giustizia internazionale nel 1930 – non si tratta di elementi nuovi, né di una lettura politica, ma di come la Cig mantenga salda la sua azione per garantire che mai la popolazione civile può diventare oggetto di attacco, mancata protezione, addirittura violando il principio della necessità militare.
Per questo
la Corte domanda ad Israele di bloccare gli insediamenti dei coloni, restituire i terreni e le abitazioni per garantire il reinsediamento con il risarcimento del danno subito.
Illusioni, si direbbe. Se non fosse che il parere consultivo offre una lettura critica che permette di riassumere alcuni punti fermi circa l’applicabilità di quel principio che, durante un conflitto, vuole che ad operare sia “l’impero della legge e della pubblica coscienza”. Ma soprattutto nel caso specifico
mostra l’amara preoccupazione che l’idea di “due Stati due popoli” sia ormai un’espressione vuota, senza più possibilità di attuazione.
È questo quanto con sano realismo e dato di trarre dalla pronuncia fatta con un atto non privo di autorità e di autorevolezza, posto nel solco di una tradizione che iniziava nel lontano 1949 con un parere riguardante il caso dell’uccisione di un funzionario di una missione Onu inviata in Palestina per garantire l’idea di due Stati e due popoli. Oggi come allora non c’è rassegnazione nelle parole della Corte, né l’impotenza di chi non riesce a imporre vincoli e comportamenti.
La Corte chiama alle responsabilità gli Stati che delle Nazioni Unite sono membri e ne formano gli organi. Ben sapendo che ogni vincolo nella scena internazionale non può che scaturire dalla loro volontà. Anche nei momenti di rottura dell’ordine internazionale, come sono i conflitti, a prevalere non è un astratto desiderio di pace, ma la volontà di coniugare la giustizia con le esigenze di umanità.
(*) delegato pontificio Università Urbaniana e Ordinario diritto internazionale