Trent’anni fa, il 16 luglio 1994 viene dichiarata ufficialmente la fine della guerra in Ruanda e di uno dei genocidi che hanno caratterizzato il XX secolo. Forse il più cruento in rapporto al tempo e alla popolazione. In tre mesi morirono tra gli 800 mila e 1,2 milioni di persone su una popolazione di circa 7 milioni per la gran parte uccisi a colpi di machete o mazze chiodate. La stragrande maggioranza delle vittime erano appartenenti all’etnia Tutsi, ma furono colpite anche non poche persone Hutu o di altri gruppi etnici, perché ritenute troppo moderate verso i Tutsi. Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise. La mattanza, preparata da tempo, iniziò il 6 aprile 1994 con l’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana di rientro dalla Tanzania dove si era recato per discutere un accordo di pace per la fine della guerra civile tra i ribelli del Fronte patriottico ruandese (Fpr) di etnia Tutsi e il governo del Ruanda a maggioranza Hutu. I responsabili di quell’attentato sono ancora ignoti. Il conflitto violento tra i due gruppi etnici era iniziato in modo cruento dopo l’indipendenza a causa della politica coloniale belga che aveva esacerbato e formalizzato la divisione etnica tra Hutu (la maggioranza), Tutsi e Batwa per i loro interessi di controllo del potere. Dopo l’indipendenza iniziò un periodo di discriminazione da parte degli Hutu verso i Tutsi e la reazione dei Tutsi con il Fronte Patriottico Ruandese conflitto che non risparmiò violenze efferate da ambo le parti e diversi eccidi di massa. Il genocidio iniziato il 6 aprile era stato ben preparato nei mesi precedenti con la creazione di gruppi paramilitari, l’acquisto su larga scala di machete da distribuire al momento opportuno, la fomentazione dell’odio etnico tramite una potente propaganda comunicativa. Da questo punto di vista ebbe un ruolo fondamentale la “Radio des Milles Collines” chiamata anche Radio machete.
Ma la storia del Ruanda prima, durante e dopo il genocidio dimostra più che mai come la guerra e la pace non siano frutto di eventi fortuiti o di fattori connaturati nei caratteri di popoli più o meno inclini alla violenza, ma piuttosto conseguenza di scelte politiche precise.
La notizia dell’assassinio del presidente Hutu attivò la macchina di morte: entrarono in azione i gruppi paramilitari che insieme alla forze armate regolari iniziarono le uccisioni indiscriminate di tutti coloro che nella carta di identità erano registrati di etnia Tutsi (I belgi avevano introdotto l’indicazione dell’etnia nei documenti di identità). La radio inizio una feroce campagna di incitamento all’uccisione dei Tutsi e degli Hutu che si rifiutavano di brandire il machete. Anche la Chiesa cattolica locale venne travolta dall’odio etnico in un paese per la gran parte cristiano. Molti cattolici Hutu inclusi membri del clero si macchiarono di violenze o di complicità, altri ne furono vittime. La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte. Solo nel 2021 Emmanuel Macron chiederà perdono per le responsabilità francesi. Il 16 luglio la carneficina si fermò in Ruanda con la cacciata del governo Hutu e con lui di centinaia di migliaia di profughi e la presa del potere del FPR di Paul Kagame ancora saldamente al comando della nazione ruandese dopo trent’anni. Purtroppo però le violenze non terminarono nei paesi vicini, nello Zaire (attuale Repubblica Democratica del Congo) in particolare dove si rifugiarono la gran parte degli Hutu in fuga innescando di fatto i conflitti che si susseguirono e una instabilità nella regione dei Grandi Laghi che ancora perdura.
La comunità internazionale restò a guardare. Le forze francesi presenti nel Paese non ostacolarono i massacri. L’Europa che tanta responsabilità aveva avuto nella dinamica di odio che avevano condotto sino a quel momento, si voltò dall’altra parte
A trent’anni dalla fine del genocidio perpetrato contro la popolazione Tutsi in Ruanda, cosa resta nella memoria della gente di quanto accadde allora e cosa ne pensano i giovani di oggi?
Dopo il genocidio del 1994, che costò al Ruanda più di un milione di persone, il Paese si è trovato in una situazione disperata, con enormi perdite di vite umane e danni economici e materiali enormi, dovendo ricostruire tutto da zero. Il Paese ha investito molti nella ripresa economica, nella ricostruzione delle infrastrutture e, soprattutto, nella riconciliazione nazionale e nel rimpatrio dei rifugiati. La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono, un processo difficile ma riuscito che ha gradualmente ristabilito la fiducia, la reciprocità e la condivisione della vita quotidiana tra le famiglie delle vittime e quelle degli autori del genocidio. I giovani – vittime e non – pur non avendo vissuto il genocidio ma soffrendone le conseguenze, in particolare il trauma, hanno avuto l’opportunità (sessioni educative tramite il programma Itorero di cui parlerò dopo e conferenze durante la commemorazione del genocidio) di conoscere ciò che è accaduto e hanno preso l’iniziativa per un futuro migliore. Il governo ruandese e altri attori, tra cui la Chiesa cattolica, in tutti i campi stanno incoraggiando i giovani a essere più resilienti e a partecipare attivamente e positivamente alla ripresa della sfortunata situazione che il Paese ha vissuto.
La Chiesa cattolica ha sostenuto gli sforzi del governo per la riconciliazione, dove le persone sono state mobilitate per superare la barriera dell’odio e chiedere e concedere il perdono
Dopo la fine del genocidio vi è stato un percorso di pacificazione, quali sono stati gli elementi essenziali e quali risultati ha portato, quali ancora le sfide?
Attraverso il programma Itorero, un modello di educazione alla cittadinanza, all’unità e alla riconciliazione che affonda le radici al sistema educativo pre-coloniale, il governo ha aiutato i giovani a superare le loro prove e a diventare adulti responsabili. I tribunali Gacaca (istituzionalizzazione dei tribunali di comunità tradizionali) hanno permesso di accelerare i processi, non solo dando accesso alla giustizia ai presunti innocenti, ma anche punendo i colpevoli, un modo per alleviare le conseguenze del genocidio per le vittime. Sono stati inoltre istituiti programmi e fondi per aiutare i sopravvissuti al genocidio e le famiglie più vulnerabili, con l’obiettivo di ricostruire le famiglie più indigenti e ricomporre il tessuto sociale. La sfida a lungo termine è quella di guarire dal trauma delle atrocità, un processo che dovrà continuare a lungo.
Qual è la situazione del paese oggi da un punto di vista sociale? Quali i progressi compiuti e quali i problemi più importanti?
I ruandesi vivono in armonia come mai prima d’ora. Gli sforzi di pace e riconciliazione proseguono. I matrimoni tra persone di differenti gruppi sono ripresi e la sfiducia tra le vittime, gli autori del genocidio e i loro figli è diminuita in modo significativo (ripresa delle attività di aiuto reciproco tra famiglie, ecc.). Lo sviluppo del Paese e della sua popolazione è una priorità per tutti. Rimane il problema dei casi isolati di coloro che vogliono continuare ad attaccare le vittime, soprattutto durante il periodo di commemorazione del genocidio, ma anche se non sono molti, dobbiamo continuare a mobilitarci ed educare.
Secondo lei qual è l’insegnamento che oggi il mondo dovrebbe trarre dalla storia del Ruanda?
Ci sono molte lezioni da imparare dalla storia del genocidio in Ruanda, non ultima la volontà delle autorità di promuovere l’unità e la riconciliazione. Tutte le grida di sofferenza, da qualsiasi parte provengano, meritano un’attenzione particolare e le azioni necessarie per preservare le vite umane in pericolo finché si è ancora in tempo. Le persone devono essere al centro di qualsiasi azione che riguardi la loro vita, e il caso della partecipazione delle vittime, degli accusati e della popolazione in generale è una buona lezione da imparare altrove. Gli attori internazionali devono impegnarsi a fondo per sostenere gli sforzi dei rispettivi governi nella partecipazione delle persone e nel loro sviluppo.
(*) Italia Caritas