Le immagini dei funerali del presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi, e del ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, in programma oggi a Tabriz, potranno dire molto sulla risposta del regime sull’incidente aereo, avvenuto a 600 chilometri di distanza da Teheran. Già chi parteciperà e chi parlerà in occasione delle esequie svelerà come chi muove i fili nel Paese stia reagendo all’accaduto. Per Alessandro Politi, direttore della Nato defense college foundation (Ndcf), oltre al funerale, arriveranno poi le notizie sulla campagna elettorale che attende il Paese: “Una volta conosciuti i nomi degli scartati si capirà qualcosa in più”. Nel frattempo, il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha chiesto l’arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e del capo di Hamas, Yahya Sinwar, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. “Si tratta – commenta Politi – di un precedente giuridico che rappresenterà un caso di studio”.
L’incidente che ha portato alla morte del presidente Raisi e del ministro Abdollahian in quale contesto si inserisce?
La notizia segue un periodo di proteste prolungate e represse. Le future elezioni vedranno prima un filtro dei candidati. Il sistema politico indicherà certamente una persona che però potrebbe anche rivelarsi un riformatore inatteso, come è capitato non di rado in regimi molto controllati. Per ora, è chiaro che si cercherà una forte continuità, sebbene le fazioni interne al potere iraniano siano vive e attive. C’è una lunga scalata al potere dei pasdaran e allo stesso tempo la necessità di tirare fuori il Paese dalle sanzioni. Di sicuro, è una morte che non fa comodo al governo iraniano.
Cosa accadrà domani in Iran?
Ora è il vicepresidente, Mohammad Mokhber, a dover, entro 50 giorni, organizzare le elezioni. Va detto che in pochi si aspettano un cambiamento radicale in Iran. La questione è a livello interno: Raisi era stato eletto con una percentuale altissima di astensionismo, era un lealista della Guida suprema, Ali Khamenei. Le alternative possono essere: un chierico, che rischia però di essere un papabile prima o poi per la successione di Khamenei, un tecnocrate o un riformista che potrebbe essere scelto quale capro espiatorio perché l’economia va male.
Il fatto è che stiamo assistendo, come anche in altri paesi mediorientali (indipendentemente dal sistema elettorale) ad una militarizzazione del potere e questo è un fattore negativo per l’ecosistema regionale.
Ci sono reazioni alla morte di Raisi da parte degli altri Stati che stupiscono?
A parte le reazioni superficiali, quella più interessante è stata da parte degli Stati Uniti che hanno subito convocato il Consiglio nazionale di sicurezza. Si tratta di una reazione professionale perché i leader politici devono pensare al domani, al dopo Raisi. Non mi stupirei se il gabinetto di guerra israeliano avesse convocato anch’esso un’apposita riunione. Quello che è importante capire è dove andrà il governo iraniano, per ora, non lo sa nessuno, nemmeno a Tehran.
Il funerale ci darà le prime indicazioni: in base a chi parlerà e a quali voci circoleranno nell’ambiente politico si potrà avere un’idea più chiara.
È stato annunciato l’avvio di un’indagine sull’incidente da parte di Teheran.
Sicuramente ci sarà, è interesse del governo stesso sapere. L’indagine sarà assistita dai servizi di sicurezza perché è possibile anche sia stato causato da fuoriusciti iraniani. È una situazione complicata della quale fra qualche giorno avremo qualche dato ulteriore. Poi, aperta la campagna elettorale e conosciuti i nomi degli scartati si capirà qualcosa in più. Altra cosa è l’indicazione di chi sarà il ministro degli Esteri perché per ora sarà il numero due mentre è possibile che venga scelta successivamente una persona con più peso politico. Al momento sappiamo pochissimo, il cui prodest, cioè a chi giova questo incidente, ha confini molto ampi, non semplici da definire perché ogni presidente ha sempre molti oppositori.
Nel frattempo, il procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha chiesto l’arresto del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e del capo di Hamas, Yahya Sinwar, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. Netanyahu ha già risposto che è un “oltraggio di proporzioni storiche”. È un terremoto anche questo?
Il fatto rappresenta un precedente importante. I crimini di guerra e contro l’umanità vanno al di là della qualità politica dell’imputato o del Paese coinvolto. Si tratta di un precedente giuridico che rappresenterà un caso studio. Dal punto di vista de jure, è un erga omnes. È un atto più che visibile per le persone di cui si chiede l’arresto ed è tutt’altro che banale. Non è detto che la Corte accoglierà la richiesta, ma indipendentemente dalle dinamiche in atto nelle varie sedi, l’atto prevede l’incriminazione di un capo di Stato. Le reazioni a caldo si spiegano, ma restano retoriche. La richiesta del procuratore è in linea con il principio giuridico erga omnes per il quale non esistono crimini di guerra giustificabili e altri no, pena il collasso della legge stessa. Il governo israeliano per la seconda volta, dopo il caso nella Corte internazionale di giustizia iniziato da Pretoria, vede messa in discussione la legalità e legittimità delle sue azioni in un’istanza giudiziaria internazionale, il che lo inquieta assai più delle tante risoluzioni in sede Onu. Ovviamente il dato politico è che, in un rule-based order, tutti, governi de jure o de facto, possono essere chiamati rispondere delle loro azioni: ci piaccia o no, un segno di cambiamento importante che ha conseguenze a largo raggio.