Ora che Xi è tornato a Pechino, è necessario riflettere sul tour europeo appena concluso. Più che stilare un bilancio, serve decifrarne i messaggi. Liquidarlo come tentativo malriuscito di scardinare la compagine euroatlantica non sarebbe del tutto corretto, se si intende ciò in un’ottica a somma zero, volta a sottrarre gregari all’egemone statunitense. Piuttosto occorre leggere alla luce della dinamica riformulazione dell’approccio Usa, alla quale la Cina risponde attraverso le sue interlocuzioni bilaterali, applicandovi valenze simboliche da rivolgere su scala mondiale.
Per provare a tracciarle bisogna partire dall’affanno di Washington nel fronteggiare un teatro globale sempre meno congeniale all’uniformità richiesta dall’assetto unipolare. Il che spinge a rappresentare le sfide in corso mediante un riduzionismo fondamentalmente dualistico. In certa misura, ancorché provvisoriamente utile a riprendere fiato, gli Usa sembrano rispolverare i teorici realisti del contenimento che, nella bipartizione del mondo durante la Guerra fredda, trovavano un confortevole schema per concentrare gli sforzi contro un unico bersaglio, semplificando con alternative secche le scelte di campo altrui. Con il vantaggio di applicare logiche di fedeltà esclusiva (almeno nelle sue raffigurazioni) a tutti i gregari della contesa principale, inducendo l’antagonista ad agire in modo speculare per ottenere, con la reciproca impermeabilità, l’arginamento dell’antagonista e il controllo del rispettivo settore di dominio. A questo servì la Cortina di ferro, pur tollerando forme di trasversalismo sottotraccia o settoriale.
Sfumato l’entusiasmo per il New American Century mondiale annunciato dal crollo sovietico, oggi assistiamo a ingiunzioni protezionistiche e guerre commerciali, con la mobilitazione dei sodali al riarmo tentando di farli convergere in una Nato bioceanica (dall’Atlantico al Pacifico) per serrare i ranghi e distribuire un peso che gli Usa non riescono più a sostenere da soli.
Sapendo d’altronde di contare su un vantaggio rispetto alla Cina posta al di là della barricata: confinata nel disegno dicotomico, quest’ultima non può avvalersi di un blocco egemonico omologato alla sua leadership assertiva. Appunto a questa configurazione Pechino vuole decisamente sottrarsi, sapendo d’altronde che le proprie fortune competitive poggiano sull’abilità tentacolare di stabilire, sotto la formula del multipolarismo, relazioni “laiche” e poliedriche, senza steccati e immuni da preclusioni manichee. La risposta data all’ultimatum di Blinken lo ha confermato: a chi a fine aprile minacciava ritorsioni laddove il Dragone non cessasse di inondare il mercato di prodotti a costi troppo competitivi, il governo cinese replicava con l’allegoria della camicia allacciata male sbagliando il primo bottone: pretese irricevibili, provenienti da chi vuole dipingere la Cina come un nemico globale contro cui concentrare gli sforzi di tutto l’Occidente.
Già questo orienta alla cifra depolarizzante del tour europeo, condotto all’insegna di parole chiave come trasversalità, cooperazione, integrazione, indipendenza sovrana e autonomia strategica. In funzione di queste sono state scelte le mete: Francia, Serbia, Ungheria, ciascuna a suo modo da intercettare nella sua specificità, profittando di anniversari utili a confezionare un messaggio costante.
Tre Paesi che interpretano il proprio ruolo in Occidente in modo diversificato. Parigi è socia fondatrice della Ue e organicamente inserita nella Nato, Belgrado ambisce a far parte della prima ma non della seconda, mentre Budapest partecipa a entrambe con criticità. Stessa diversità nel rapporto odierno con la Russia: dall’ostilità di standard atlantista alla fratellanza (slava) al pragmatismo. Varietà che Xi non considera ostative alle relazioni con il Dragone, che ostenta la sua estraneità alla “gelosia” esclusivistica, posto il rispetto per le altrui scelte sovrane. Tanto più perché Pechino, avendo definito “senza limiti” l’amicizia con Mosca, sottintende la volontà di conservarsi illimitatamente libera di collaborare settorialmente anche con i nemici del Cremlino.
Per aprire le visite cui assegna risonanza didascalica, il leader cinese usa pubblicare articoli sulle testate dei Paesi ospitanti. Così è stato anche per lo scalo a Parigi, introdotto da un suo intervento su Le Figaro per celebrare, nei 60 anni delle relazioni diplomatiche sino-francesi, la figura di De Gaulle, encomiato per il coraggio nel travalicare la Cortina di ferro con lungimirante visione del futuro, senza abiurare alla propria occidentalità: efficace la citazione di Confucio, per cui l’uomo di vera integrità morale è colui che non viola le proprie convinzioni, eppure non si lascia guidare dal pregiudizio né condizionare dal potere altrui.
La Francia odierna è quella di Macron, che nel 2019 dichiarava la “morte cerebrale” della Nato stante l’esaurimento della funzione antisovietica, addebitando alla sua permanenza la responsabilità di ostacolare l’autonomia geopolitica della Ue. Macron che invece oggi – visto che la guerra in Ucraina ha provvidenzialmente rinnovato la ragion d’essere dell’Alleanza – sostiene il riarmo euroatlantico. Lo stesso Macron, che fino allo scorso anno insisteva sui negoziati frenando le esternazioni escalative di Johnson e Stoltenberg, mentre ora ipotizza l’invio di truppe. Contrariamente alle apparenze, si tratta pur sempre della medesima ispirazione strategica, che nel presente come nel passato cerca l’opportunità per ritagliare alla Francia il ruolo di egemone regionale, accreditando l’Eliseo quale agente monomandatario della Casa Bianca con delega per l’Europa. Con ciò subodorando il declino della locomotiva tedesca e acquistando punti con un registro arrembante per fronteggiare la concorrenza luogotenenziale della Polonia. Magari – perduto il controllo monopilistico sulla Françafrique – in vista di più spazio nel Mediterraneo, sottolineando agli occhi di Washington l’inaffidabilità della Turchia.
Per sondare un po’ meglio la coerenza delle conversioni tattiche di Macron occorrerebbe un’analisi specifica. Ma per quel che qui ci occupa, rileva la necessità francese di conservare l’affidamento sulla sponda economica cinese in vista della competizione infracontinentale, senza però consumare tradimenti (peraltro non richiesti da Pechino) nei confronti di Bruxelles. Ecco perché nel trilaterale con von der Leyen e Xi, Macron ha dato man forte alla prima. Né si è levato per invitarla alla moderazione quando questa, a ridosso della visita – facendo tremare una volta di più l’economia tedesca – ha minacciato la guerra commerciale contro le aziende cinesi in Europa, accusate di esporre il continente al rischio de-industrializzazione. L’attenzione della Commissione è rivolta soprattutto ai produttori nel settore delle auto elettriche, del fotovoltaico e dell’eolico, sospettate di ricevere sussidi dal governo di Pechino: così da mettere fuori gioco, mediante l’accentuata competitività, l’Europa leader della svolta verde: quella che riteneva di partire in vantaggio su tutti nei risvolti economici del nuovo paradigma energetico, mentre già dall’anno scorso subisce in silenzio l’attrazione degli investimenti negli Usa dovuta agli incentivi varati dalla Casa Bianca mentre, in tema di deindustrializzazione, paga il conto della finanziarizzazione esasperata dall’Occidente ormai da troppi anni.
Eppure l’assecondamento dei rimbrotti pubblici non hanno impedito a Macron di ospitare Xi lontano dai microfoni nella villa sui Pirenei, per poi accomiatarsi evitando di lasciare l’economia nazionale a bocca asciutta: oltre alla prospettiva di un impianto del colosso cinese Byd nel campo dell’automotive elettrico, sono stati siglati diversi contratti tra società dei due Paesi per integrare le rispettive produzioni nel campo delle batterie, dell’idrogeno e del solare, intese sul nucleare e l’aerospaziale e il memorandum tra Crédit agricole e Bank of China.
Anche la tappa in Serbia è stata inaugurata da un articolo di Xi: quello che, sulle pagine di Politika, ha enfatizzato l’amicizia tra i due popoli, assieme al dovere delle principali potenze di rispettare con credibile coerenza il diritto internazionale, nella composizione tra interessi nazionali. Soprattutto ha commemorato il 25° anniversario del bombardamento (7 maggio 1999) dell’ambasciata cinese a Belgrado: nella versione di Washington un errore tecnico, cui Pechino non ha mai creduto, vedendovi una ritorsione punitiva: allora Cina e Russia, votando in Consiglio di Sicurezza contro l’attacco della Nato, ne impedirono l’autorizzazione. Quel che conta è la svolta emblematica data da quella divergenza. In precedenza, infatti, Russia e Cina avevano votato molte volte d’intesa con gli Usa, ritenendo che la fine della Guerra fredda avrebbe permesso di integrarsi in un nuovo ordine a titolo paritetico o quasi, garantendo loro una certa proiezione di influenza accanto a quelle altrui, con tanto di aree di rispetto. L’attacco alla Serbia fu il campo di prova che smentì simili aspettative, essendo Belgrado legata a Mosca per la comunanza slava, mentre Pechino conservava la solidarietà intessuta con la Jugoslavia nell’ambito dei Paesi non allineati.
L’odierna Serbia di Vućic, che ha accolto Xi con tappeto rosso e bagno di folla, si candida all’integrazione in Ue. La Cina può intercettarne il bisogno di crescita, mediante la quale Belgrado può controbilanciare le condizionalità di Bruxelles e rendersi più attraente, anziché essere accolta come cenerentola in debito di beneficienza: con ciò presumendo nella governance europea una logica concorrenziale tale da ritenere più intelligente fissare con il Paese legami organici piuttosto che spingerlo del tutto nelle braccia del Dragone, subendo la presenza nel continente di un suo satellite esclusivo. Le premesse a questo risvolto ci sono tutte, dato che la Serbia, aderente alla Nuova Via della Seta, gode di un accordo di libero scambio con la Cina e negli ultimi 10 anni ha visto il volume degli scambi crescere di ben 8 volte, mentre la produzione in loco dei gruppi industriali cinesi guidano l’export serbo. La visita di Xi ha semplicemente potenziato il partenariato strategico globale, fruttando 28 accordi nei settori di metallurgia, minerario, infrastrutture dei trasporti, energia, sicurezza, economia digitale, ricerca e sviluppo tecnologico, sanità, turismo, cultura, difesa.
A Budapest stesso schema: anniversario (75 anni di relazioni), articolo, tappeto e folla festante. L’Ungheria è stato il primo Stato europeo a siglare la partecipazione alla Belt and Road Initiative e Orbán ha tutto l’interesse a valorizzare la Ostpolitik come contrappeso alle frizioni con la Ue. Viepiù oggi, giacché le divergenze sulle misure antirusse hanno disarticolato il Gruppo Visegrad, su cui il premier faceva affidamento per vari dossier. L’Ungheria ha già nella Cina il suo principale investitore estero (58%) e fino al 2025 beneficerà dell’accordo sugli ingressi senza visto. I protocolli sottoscritti giovedì confermano il profittevole rapporto, incrementando la presenza cinese nel campo dell’automotive elettrico e del fotovoltaico, con passi avanti sul finanziamento dell’alta velocità interna e del progetto della linea ferroviaria tra Budapest a Belgrado e da questa al Pireo in Grecia, utile a fare dell’Ungheria un anello infrastrutturale dei commerci tra Europa e Asia.
Il commento dell’ambasciatore cinese a Budapest vale a sintetizzare il messaggio dell’intero tour: con esso la Cina ha esibito un modello di come concepisce le cooperazioni bilaterali con l’Occidente. Celebrando gli anniversari delle loro origini, Xi ha suggerito che esse preesistono all’unipolarismo Usa, invero mai propriamente decollato. E si prestano oggi a smentire la rappresentazione bipolare quale seconda scelta di retroguardia di Washington. Le mosse dei due rivali si giocheranno anche su questa sfida interpretativa – dagli effetti concretissimi – sugli assetti del mondo.