Di emergenza in emergenza. Da una città, la capitale Port-au-Prince, praticamente in mano ai gruppi criminali e alle bande armate nella sua totalità, al resto del Paese, soprattutto al sud, che si trova alle prese con decine di migliaia di sfollati, di intere famiglie che stanno scappando dalla metropoli per cercare rifugio in località un po’ più tranquille.
A lanciare l’allarme, l’ennesimo, su queste situazioni drammatiche è mons. Joseph Gontrand Decoste, segretario generale della Conferenza episcopale haitiana e vescovo di Jérémie, che si trova nell’estremità sud-ovest del Paese. Una città che, oggi, è, appunto, uno dei principali punti d’approdo di coloro che fuggono da Port-au-Prince.
Mentre il Consiglio di transizione, chiamato a governare il Paese dopo le dimissioni del premier Ariel Henry, stenta a trovare un assetto definitivo e operativo e l’arrivo della forza di polizia internazionale approvato dall’Onu resta al momento solo un desiderio, la coalizione di bande armate “Vivre Ensemble” (Vivere insieme), guidata dall’ex poliziotto Jimmy Cherizier, alias Barbacue, semina terrore.
Secondo un rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, quest’anno ad Haiti sono già state uccise più di 1.500 persone. Un assalto al palazzo presidenziale è fallito, ma le bande hanno già “svuotato” il principale carcere del Paese, preso il controllo del porto e dell’aeroporto, saccheggiato la Biblioteca nazionale e le principali istituzioni educative.
Paese alla deriva, come una nave senza timone. Da qui parte la descrizione di mons. Gontrand: “L’attuale situazione ad Haiti, in particolare nella sua capitale Port-au-Prince, è estremamente preoccupante. Gli osservatori informati la descrivono come cataclismatica, catastrofica, disastrosa, caotica, anarchica. In poche parole, Haiti è un Paese alla deriva, come una nave senza timone, senza capitano; è un Paese sull’orlo dell’abisso. Questa situazione drammatica è stata causata in particolare dallo scatenarsi della violenza da parte di bande, senza fede né legge, pesantemente armate e legate alle autorità, che stanno spadroneggiando nel Paese e operano in pieno giorno nella più totale impunità, sotto l’occhio indifferente delle autorità statali, che avrebbero il compito di garantire il rispetto della legge, la libera circolazione dei cittadini, la protezione e la sicurezza della vita e dei beni della popolazione”. Le bande, spiega il vescovo, “armate fino ai denti, controllano praticamente al 100% la capitale e le strade principali che portano alle province. La loro violenza è inimmaginabile, alcuni si spingono a dire diabolica, demoniaca, satanica. È una violenza cieca, nichilista, oscurantista, distruttiva e devastante, che prende di mira la popolazione, e in particolare la povera gente che ogni giorno, nonostante l’insicurezza delle strade, deve uscire per guadagnarsi il pane quotidiano! Tra gli obiettivi di queste azioni ci sono i commissariati di polizia, i ministeri, le carceri, i mercati pubblici, le scuole, le università, le biblioteche, le farmacie, gli ospedali, i negozi, i porti e gli aeroporti – in breve, le strutture strategiche e vitali del Paese”.
L’esodo degli sfollati interni. Da qui, si innesta la grande fuga. Più di 53.000 persone sono scappate dalla capitale di Haiti in meno di tre settimane, di fronte all’escalation di violenza messa in atto dalle bande armate. Un numero senza precedenti, che preoccupa fortemente le Nazioni Unite, che hanno diffuso il dato. Oltre il 60% si sta dirigendo verso la regione rurale meridionale del Paese, sempre secondo l’Onu. “I nostri colleghi che seguono l’emergenza umanitaria nei dipartimenti del sud non dispongono di infrastrutture adeguate e le comunità locali non hanno risorse sufficienti per far fronte al gran numero di persone in fuga da Port-au-Prince”, ha affermato il portavoce dell’Onu, Stephane Dujarric. Secondo il rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, la regione meridionale ospita già più di 116.000 haitiani fuggiti in precedenza dalla capitale. L’esodo dalla capitale, che conta circa 3 milioni di abitanti, è iniziato in modo così massiccio a partire da febbraio, con l’intensificarsi delle azioni delle bande armate.
“La popolazione di Port-au-Prince, stimata in quasi tre milioni di abitanti – prosegue mons. Gontrand -, presa nel fuoco incrociato delle bande scatenate, non sapendo più dove nascondersi, sta iniziando a fuggire da Port-au-Prince verso le città di provincia, con il rischio di creare un’altra crisi umanitaria e alimentare, oltre a quella già esistente, e che sarà molto difficile da gestire. Intere zone di Port-au-Prince vengono svuotate dei loro abitanti da bande estremamente violente che cercano di estendere il loro territorio, il loro potere, il loro dominio e la loro dannosa influenza. Questi ‘sfollati interni’ abbandonano tutto contro la loro volontà: le loro case e i loro beni, per sfuggire alla furia omicida delle bande che sembrano intenzionate a saccheggiare, depredare, incendiare e distruggere tutto ciò che incontrano, ma con quali fini di distruzione nichilista nessuno sa esattamente. Gli sfollati interni stanno arrivando in tutte le dieci diocesi del Paese, esausti e traumatizzati da ciò che hanno vissuto a Port-au-Prince, che, secondo loro, è diventata un vero e proprio inferno, invivibile e inabitabile. Dovranno ricostruire le loro vite e per farlo avranno bisogno di un sostegno a tutti i livelli: umano, medico, economico, pastorale e psicologico”.
L’obiettivo, per le diocesi periferiche, è quello di attrezzarsi alla nuova emergenza: “Di fronte a questa situazione – spiega, infatti, il vescovo di Jérémie -, che non potrebbe essere più catastrofica e dolorosa, ci sentiamo veramente impotenti, indifesi e indeboliti, e possiamo solo fare appello all’unità nazionale (‘L’unione fa la forza’ è, paradossalmente, il moto di Haiti) e alla solidarietà internazionale per aiutare il Paese a rimettersi in piedi, per evitare di sprofondare sempre più nella violenza, per evitare di sprofondare nell’abisso”. Anche a Jérémie è attiva la Caritas, chiamata ora a uno sforzo di accoglienza, in una terra poverissima, che negli ultimi anni ha conosciuto la distruzione del terremoto e varie calamità naturali. “Finora, però – conclude il vescovo –, prevale una solidarietà informale e familiare, gli sfollati sono soprattutto stati ospitati da parenti e amici”. Se, però, come è prevedibile, l’esodo proseguirà, esso sarà sempre meno sostenibile.
*giornalista de “La vita del popolo”