Affluenza al 41%: questo il dato più significativo della tornata elettorale che l’1 marzo ha chiamato gli iraniani a rinnovare l’Assemblea consultiva e il Consiglio degli Esperti dell’Orientamento. Lo spoglio darà i risultati nominali, ma senza soprese, vista la scrematura dei candidati con cui i Guardiani della Costituzione hanno preconfezionato gli esiti del voto.
Il tracollo della partecipazione, paventato dai vertici della Repubblica islamica, sembra evitato, considerando che all’estero si presagiva un’astensione al 75%. Vero è che le autorità hanno posticipato la chiusura delle urne di sei ore pur di incoraggiare il voto. Considerando che le legislative del 2020 si attestarono al 42%, si registra una conferma, nonostante l’ondata delle proteste avviate nel 2022 con la morte della studentessa curdo-iraniana Mahsa Amini, soffocate dalla repressione e indebolite dalla eterogeneità delle istanze che le hanno intercettate. Si tratta comunque del minimo storico, raggiunto dopo il 62% delle penultime legislative del 2016.
I 285 parlamentari del Majlis (i restanti 5 seggi sono riservati alle minoranze confessionali: ebrei, zoroastraiani, cristiani assiri, caldei e armeni) rifletteranno le proporzioni già in essere. Eletti che siano nei collegi uninominali a doppio turno o nei plurinominali a voto illimitato, riprodurranno la maggioranza del campo dei principalisti che negli ultimi 4 anni, con 227 seggi, ha soverchiato riformisti e centristi moderati. Lo schieramento, diviso in diverse sigle, si compone di tradizionalisti clericali e ultraconservatori. Si aggiungono i conservatori laici della “corrente deviante”, che vorrebbero sfilarsi dalle ingerenze immediate degli ayatollah. Nella sua orbita ha gravitato l’ex presidente Ahmadinejad, iniziatore del programma nucleare, già frugale delfino di Khamenei, poi caduto in disgrazia per gli accenti socializzanti e gli incarichi conferiti alle donne, volti a ostentare l’autonomia dai clericali che fanno quadrato attorno alla dottrina vilayat-e faqih sul ruolo dei teologi-giuristi, agenti tutelari dell’Imam nascosto.
Anche a danno dei “devianti” ha operato il filtro dei Guardiani: 6 teologi e 6 giurisperiti – rispettivamente nominati dalla Guida suprema e proposti dalla Corte suprema – che hanno ridotto da 49mila a 15 mila i candidati al Majlis. Ma le penalizzazioni hanno riguardato soprattutto il campo riformista, che lamenta l’applicazione arbitraria dei criteri di interdizione all’eleggibilità, previsti anche in caso di non comprovata fede musulmana, inadeguato stato di salute, insufficiente alfabetizzazione, tossicodipendenza, notorietà famigerata e grande proprietà terriera.
Il setaccio dei Guardiani è stato viepiù attento per il Consiglio degli Esperti, cui spetta nominare e rimuovere la Guida suprema: stavolta 136 ammessi per gli 88 seggi assegnati ogni 8 anni con l’uninominale a turno unico. Il rapporto si traduce in diversi collegi con candidato unico, come è stato nel caso del Khorasan, dove si è presentato Raisi, attuale presidente della Repubblica. Tra gli esclusi illustri anche il centrista Rouhani, suo predecessore, quantunque membro del consesso da 24 anni e amico di antica data di Khamenei. Ciò segnala la volontà di precostituire l’indirizzo che verrà adottato nella scelta del terzo Rahbar, dopo Khomeini e l’ormai 84enne Khamenei, in un frangente in cui occorrerà mediare tra il centralismo teocratico difeso dai clericali e il ceto dirigente della nuova generazione laica che morde il freno da università, alta amministrazione e forze armate.
Nel complesso, le preselezioni annunciano il blocco del pendolo dell’alternanza tra principalisti e riformisti. Ma rileverà soprattutto il modo in cui quel 41% verrà letto. Gli appelli alla partecipazione sono stati insistenti come non mai, contrastando gli inviti a boicottare le urne. Il motivo è trasparente, esplicitato dai vertici militari e da Khamenei: votare per confermare la base popolare della Repubblica e deluderne i nemici, individuati in sionisti, Usa, diversi governi europei e multinazionali predatorie che attendono alla porta. Ciò significa scoraggiare la tentazione di orchestrare dall’esterno manovre contro la sicurezza nazionale, sperando in quinte colonne dormienti e sobillatori interni. Allargando lo sguardo al contesto regionale, vuol dire anche non incentivare l’escalation contro gli irradiamenti in Siria, Libano, Yemen, Iraq, in vista dell’avvicendamento alla Casa Bianca e contando le volte in cui Netanyahu, in passato, ha provato ad alzare il tiro su Teheran forzando il freno dei suoi generali.
Se il bicchiere dell’affluenza sarà visto “mezzo vuoto”, si potrà accentuare la sindrome dell’accerchiamento con l’intento di prevenire quanto paventato, potenziando, se possibile, l’asse della resistenza con i sodali regionali. Ma senza escludere un surplus collaborativo con l’Arabia Saudita che, per quanto rivale, non desidera l’aggravamento della tempesta mediorientale. Tanto più perché una destabilizzazione iraniana potrebbe contagiare le petrolmonarchie anche per effetto di un nuovo “vento primaverile”.
Il tentativo di rilanciare la legittimazione interna non comporterà aperture sui diritti civili. Ma potrebbe mirare ai motivi economici della disaffezione, legati alle sanzioni occidentali. Il che accelererebbe il percorso Brics guardando a Mosca e Pechino come fonti vitali per finanziare piani di sviluppo e ingenti politiche sociali. Non senza sfruttare l’opportunità di specializzare stabilmente l’industria iraniana nella produzione di armi conto terzi. Con ciò condividendo la formula del “riarmo profittevole” che oggi unisce i gregari dei maggiori contendenti sulla scena globale.
(*) Pontificia Università Lateranense