All’ingresso del Parque nacional Tayrona c’è una fila lunghissima di turisti di tutte le nazionalità. Ricorda quella per entrare ai Musei Vaticani. La differenza è che la bellezza mozzafiato che qui si attende di visitare non è artistica ma naturale, con paesaggi ed ecosistemi unici al mondo. Siamo nella Colombia del nord davanti al mare caraibico, vicino alla Sierra Nevada di Santa Marta. La fila così lunga è dovuta al fatto che, come ogni anno, il parco ha riaperto dopo due settimane di chiusura al turismo: una piccola concessione per permettere ai popoli indigeni di rivivere i loro riti nella terra che consideravano sacra. In queste due settimane i leader spirituali dei quattro popoli che abitano queste zone – gli Arhuaco (o Ika), i Wiwa, i Kogui e i Kankuamo, in totale circa 30.000 persone – si riuniscono per una “limpieza”, ossia per riportare il silenzio e la sacralità, ripulire energeticamente terra e acque. Durante queste pause si vedono addirittura riapparire animali come il giaguaro, il puma, il caimano dagli occhiali, il cane-volpe.
Gli indigeni credono sia loro responsabilità mantenere l’equilibrio dell’universo. Quando nel mondo si verificano catastrofi, pensano sia dovuto all’incapacità dell’uomo di conservare l’armonia. Non a caso il significato della parola Kogui è “i guardiani dell’armonia del mondo”. Tra le tante ragioni, c’è anche il turismo di massa che tutto consuma: perciò le loro cerimonie sono offerte per restituire alla terra ciò che le è stato tolto. In effetti, percorrere a piedi i 14 km di sentiero (andata e ritorno) necessari ad arrivare ad uno dei tanti angoli di paradiso dell’immenso parco, la spiaggia di Cabo San Juan, è quasi una esperienza mistica. Un Camino de Santiago totalmente immersi nel santuario della natura. Centinaia di visitatori camminano ogni giorno in silenzio (tranne alcune eccezioni) all’ombra del bosco secco tropicale, incalzati dal rumore dell’oceano, tra le grida delle scimmie urlatrici e la scoperta di curiose rane arboricole che si riparano nelle cavità degli alberi. Una volta quei sentieri erano percorsi solo dagli indigeni, che ne conoscono tutti i segreti. Alcuni hanno abbandonato totalmente le loro tradizioni, altri cercano di mantenerle a tutti i costi, e con fatica.
I Kogui che vivono nel Parco Tayrona. Da semplici viaggiatori è difficile avvicinarli personalmente e intrattenere una conversazione con loro. L’unico approccio possibile è comprare un succo da una famiglia Kogui che spreme arance nel parco o farsi tagliare un cocco per berne l’acqua. Una piccola attività per la sopravvivenza quotidiana. I Kogui, lunghi capelli neri come gli indiani del Nord America, vestono i tradizionali abiti bianchi e sono bellissimi. Non vogliono essere fotografati ma non tutti i turisti rispettano il loro desiderio. Gli uomini portano con sé una borsa tradizionale con foglie di coca, che masticano per ottenere un effetto leggermente stimolante, utile per affrontare la fatica nelle altitudini. Gli indigeni della Sierra Nevada sono discendenti dei Tairona, un’importante civiltà la cui maestria nella lavorazione dell’oro e nell’architettura si ammira oggi solo nei musei, in particolare nel magnifico Museo dell’Oro nella capitale Bogotà.
È comprensibile la diffidenza, dopo aver dovuto rinunciare alle loro terre millenarie. Alcuni kogui lamentano che non ricevono nessuna percentuale dai consistenti proventi del parco, che accoglie centinaia di migliaia di visitatori ogni anno, colombiani e stranieri. La guida colombiana che ci accompagna ci mostra i luoghi sacri, tra cui imponenti pietre di granito grigio che sembrano megaliti, ma racconta tutto al passato. Quando le si chiede se è giusto che siano stati praticamente quasi cacciati da questi territori risponde laconicamente che non c’erano alternative. Come a dire, se si vuole incentivare il turismo e guadagnare un po’ tutti, qualcuno o qualcosa va sacrificato sull’altare dello sviluppo e del denaro. Senza contare che agli occhi dei cosiddetti “civilizzati” gli indigeni appaiono poveri, arretrati, emarginati.
È stato ed è, purtroppo, il destino comune alla maggior parte delle comunità indigene del mondo, soprattutto in America del Nord e America Latina. Spesso confinati in riserve in condizioni di disagio sociale pesante. Nonostante ci siano, a livello ufficiale, strutture governative con il compito di costruire un dialogo e tutelarne i diritti. In realtà molte lotte contro l’usurpazione delle terre, l’estrattivismo, la deforestazione, i megaprogetti, sono portate avanti dalle rappresentanze indigene, come l’Organizzazione nazionale indigena della Colombia, con il sostegno di organizzazioni non governative e spesso delle Chiese locali e dei missionari. Nel giugno dello scorso anno, ad esempio, i Kogui sono riusciti a riavere indietro dalla Germania due maschere ancestrali, in possesso della Fondazione Prussiana del Patrimonio Culturale da oltre un secolo. Ma la strada da fare per veder riconosciuti tutti i diritti è ancora lunga. Anche Papa Francesco ha molto a cuore la questione: “Dovremmo ascoltare di più i popoli indigeni e imparare dal loro stile di vita per capire bene che non possiamo continuare a divorare avidamente le risorse naturali, perché la terra ci è stata affidata perché sia per noi una madre, capace di dare ciò che è necessario a ciascuno di noi per vivere”, ha detto nel febbraio 2023 ai partecipanti al sesto incontro globale del Forum dei popoli indigeni, promosso dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad).
La Colombia è una delle nazioni con il maggior numero di comunità indigene in America Latina. Secondo il dipartimento del Ministero degli Interni, la Dirección de Asuntos Indígenas, Rom y Minorías in Colombia ci sono 567 riserve indigene, su una superficie di circa 365.004 km², con 800.271 persone in 87 gruppi indigeni. Una Ong locale cita invece 102 comunità e 1.400.000 persone censite nel 2005. Secondo il recente rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani in Colombia nel 2023 sono arrivate 123 denunce di possibili massacri, di cui 98 verificate. Su 320 vittime 18 appartenevano a gruppi etnici (15 indigeni e 3 afro-discendenti).