È sufficiente alzare gli occhi verso il cielo. È sufficiente prestare attenzione al rumore di sottofondo. Impossibile, per gli abitanti delle regioni settentrionali della Bolivia, quelle che dall’altopiano andino degradano verso la foresta amazzonica e la savana della Chiquitania, non accorgersi di cosa succede sopra le loro teste, quotidianamente: piccoli aerei che continuamente volano nel cielo, dopo essere decollati da centinaia di piccole piste (addirittura 440, secondo una recente inchiesta curata dalla rete indipendente “Connectas” e dal quotidiano “El Deber”), disseminate nel territorio. Un viavai alla luce del sole, che vale milioni e milioni di dollari, possibile grazie a molte connivenze politiche, che rischiano di essere smascherate nel momento in cui stanno “volando gli stracci” tra il presidente della Repubblica Luis Arce e il suo predecessore e “padre padrone” dei socialisti del Mas, Evo Morales.
500 chili per ogni aereo. Gli aerei che si alzano in volo, infatti, non sono mai vuoti, ma contengono mediamente 500 chili di cocaina, destinata a raggiungere in primo luogo altri Paesi latinoamericani e poi l’Europa, Italia compresa. Velivoli che poi vengono solitamente, dati alle fiamme, nei Paesi confinanti, soprattutto in Paraguay. Cosa sono, del resto, 35 mila euro, il valore medio di un Cessna o di un Piper usato, di fronte a un carico di 500 chili di coca, il cui costo si aggira sui 30 euro al grammo?
Così, il Paese latinoamericano, anche se con caratteristiche e “compiti” diversi rispetto all’Ecuador, oggi in prima pagina, sempre più, diventa un “paradiso dei narcos” (messicani, colombiani, brasiliani), una sorta di “corridoio aereo” che congiunge le Ande con il Brasile e con i Paesi più meridionali del Sudamerica, il cosiddetto “Cono Sur”. Un “narco-Stato” con un ruolo preciso e dominante, in quello che oramai si può considerare un “narco-Continente”.
Gli effetti del narcotraffico, del resto, non riguardano soltanto il cielo, ma sono ben visibili, con il loro carico di devastazione, nelle comunità locali. Con una forza e con una gravità che non si erano mai viste. Un episodio su tutti: l’uccisione di 5 militari, bruciati vivi dentro la loro auto da un’organizzazione criminali ai confini con l’Argentina, a metà gennaio.
È la fine della “retorica” di Evo. Ne è testimone mons. Eugenio Coter, bergamasco d’origine, vescovo del vicariato apostolico di Pando, nel nord del Paese, al confine con il Perù e con il Brasile. È lui a raccontare, attraverso il Sir, cosa sta succedendo in queste comunità: “Per anni, la Bolivia è stata considerata un Paese di coltivazione di coca. Del resto, è noto che l’ex presidente Evo Morales è nato come sindacalista e presidente dell’associazione dei produttori di coca, i ‘cocaleros’ della provincia del Chapare, a nord di Cochabamba. Evo, negli anni, ha sempre alimentato la retorica ‘dell’Impero’. Ha sempre detto che la coca coltivata era funzionale alle esigenze dei Paesi ricchi. Invece, è chiaro che questo fenomeno, cresciuto a dismisura tra mille connivenze, sta corrodendo il tessuto sociale e l’economia”.
Il vescovo si è accorto di questi cambiamenti, nel corso delle sue visite nell’enorme territorio del vicariato apostolico. “Quando ho risalito il fiume Madidi, quasi ai piedi delle Ande, a un certo punto sono stato fermato: ‘Meglio non proseguire, più in là ci sono i narcotrafficanti. L’anno scorso nel Paese sono state assassinate 3 mila persone, e il problema della violenza e del sicariato è particolarmente visibile nelle due città frontaliere con il Brasile di Cobija e Guayaramerín. Nella prima, soprattutto, è visibile l’azione del Primeiro Comando da Capital, il potentissimo cartello brasiliano nato a San Paolo”.
Soprattutto, il narcotraffico e la facile presenza della droga corrode la società e distrugge le vite di tanti giovani, anche in zone periferiche del Paese, come quelle del vicariato apostolico guidato da mons. Coter: “Si sta aprendo un grande problema educativo, anche per la grande crescita del consumo. Qualche settimana fa, un giovane ha investito con la sua auto un gruppo di fedeli che stava facendo una fiaccolata, era pieno zeppo di coca. E poi molti giovani sono attratti dalla possibilità di fare soldi facili. Le scuole di aviazione sono frequentatissime, con sole 16 ore di volo ti danno in mano un aeroplano. In passato, abbiamo fatto un forte lavoro nelle scuole, ma bisognerebbe avere un’attenzione continua”. Quanto alla vigilanza delle autorità, “in tutto il Paese ci sono tredici radar, pochi e malfunzionanti, spesso sabotati”.
Narco, miniere d’oro, deforestazione e tratta: una drammatica spirale. Una realtà simile a quella riferita da mons. Coter viene vissuta, più a sud, nel territorio del vicariato apostolico del Beni. Nella provincia di Moxos presta servizio padre Fabio Garbari, missionario gesuita trentino, il quale spiega al Sir: “Non sono un esperto, posso solo riferire alcune impressioni. Il momento della pandemia è stato un volano per il narcotraffico. Più in generale, tutte le attività legali si sono fermate, quelle illegali hanno prosperato. Anche in questa zona ci sono molte piste, alcune sono interne alle grandi fattorie agricole e di allevamento, qui chiamate ‘estrancias ganaderas’ che si trovano nel territorio. Volano molti aerei, molti fanno i piloti. Si tratta di possibilità di lavoro. Di fronte a questo viavai, la gente è perfino contenta, dice che si sta meglio di prima”. Ma le cose sono molto diverse: “Il narcotraffico ha il problema del riciclaggio del denaro guadagnato, e così vengono incentivate altre attività, dalle miniere d’oro, con la presenza di mercurio che avvelena le comunità, e con agricoltura e allevamento intensivi, che aumentano la deforestazione, con dirette conseguenze anche sul cambiamento climatico. In tal modo, il narcotraffico moltiplica i fattori di distruzione, in una tragica catena. Gli stessi accampamenti dei minatori hanno come conseguenza la tratta di persone”.
Arce contro Evo, la lotta ai traffici illeciti diventa arma politica. Di fronte a tale situazione, irrompono i cambiamenti politici in atto nel Paese. Ancora nel 2016, quando la situazione era meno grave di adesso, la Conferenza episcopale boliviana aveva dedicato una lettera pastorale alla piaga del narcotraffico, scrivendo tra l’altro: “Come è di dominio pubblico il narcotraffico, nella sua strategia di espansione e impunità, penetra anche nelle strutture statali e nelle forze dell’ordine, comprando le coscienze”.
Oggi è ancora così, anche se c’è un fatto nuovo: negli ultimi mesi Evo Morales ha platealmente sconfessato il suo delfino, l’attuale presidente Luis Arce. Una guerra fratricida che si proietta sulle presidenziali del prossimo anno. Improvvisamente, la lotta al narcotraffico, vera o presunta, è diventata un’arma politica. Negli ultimi mesi la polizia ha fatto più volte irruzione nel Chapare, finora una sorta di ‘Stato nello Stato’. Decine di fabbriche per la raffinazione e produzione di coca (i chimici boliviani sono particolarmente quotati) sono state distrutte. Morales si è sentito attaccato e accerchiato. Gli sviluppi sono imprevedibili, ma è difficile pensare che delle schermaglie politiche possano scalfire un fenomeno così radicato nelle Istituzioni, tra i funzionari e gli stessi agenti di polizia, spesso specialisti nel ‘volteo’, il sequestro di un carico che viene poi ‘rivenduto’). E alimentato da potentissimi cartelli internazionali.
(*) giornalista de “La vita del popolo”