Mentre, in ogni dove, soffiano venti di guerra, le popolazioni di mezzo mondo si apprestano a recarsi alle urne. Nel 2024, infatti, la metà degli abitanti della terra – circa quattro miliardi di persone – appartenenti a 76 Stati, rinnoveranno i Parlamenti e i leaders in carica. Un trionfo della democrazia, verrebbe da affermare, se non si avesse la consapevolezza che insieme a Stati di provata tradizione democratica – Europa, Stati Uniti e altri – l’evento riguarderà Paesi – tra questi la Russia – che di democrazia hanno solo la parvenza. In tali Paesi, purtroppo, si tratterà di competizioni solo “formali” ma che difficilmente cambieranno la posizione di chi detiene il potere. E, tuttavia, si tratta di un evento che, nel bene e nel male, inciderà, oltre che sulle sorti delle popolazioni interessate, anche su quelle degli abitanti del resto del mondo.
A parte le elezioni amministrative e quelle Europee, che ci riguardano da vicino, il resto delle competizioni elettorali, pur svolgendosi in mondi distanti da noi – India, Indonesia, Russia, Stati Uniti e altri ancora – non ci consentono di rimanere indifferenti. Non soltanto perché quello che accade nel punto più lontano del mondo produce, oggi, effetti politici, sociali ed economici in tutti i punti del mondo, quindi, anche da noi, ma perché soltanto dalla auspicata alternanza fra uomini orientati alla guerra con altri che credono nella forza del dialogo, si può guardare con maggiore speranza alla soluzione pacifica dei conflitti in atto in Ucraina, Israele, Palestina e alle emergenti tensioni nel Medio Oriente allargato, Mar Rosso compreso. Magari le condizioni delle popolazioni tribolate dai tanti conflitti – oggi si contano 59 guerre nel mondo – potessero alleviarsi grazie a questa massiccia competizione elettorale! «Qualcosa, sì, oggi mi fa paura – ha risposto Papa Francesco nell’intervista di Fazio – ad esempio questo portare avanti guerre nel mondo. Come finirà? Come l’Arca di Noè? Questo mi fa paura, la capacità di autodistruzione che ha oggi l’umanità». Siamo chiamati, allora, a vivere oggi come sospesi fra una elezione e un’altra, consapevoli che le risposte alle tante domande che angosciano il mondo, dipendono, tra l’altro, dalle mire che ciascun leader ripone nelle elezioni. Vladimir Putin, tanto per citare uno dei leader più potenti, guarda, sicuramente, alle elezioni che si svolgeranno nella sua Russia tra il 15 e il 17 marzo, per estendere il suo mandato – che dura ininterrottamente dal 1999- fino al 2030 e oltre, visto che la Costituzione russa glielo consente.
D’altra parte attorno a lui non ci sono rivali: i nomi che appariranno nella scheda elettorale – una trentina – serviranno solo per dare una parvenza di democrazia alle elezioni. L’unico potenziale sfidante, infatti, il dissidente Alexei Navalny, è rinchiuso da anni, con accuse inconsistenti, nelle patrie galere. Più democratico, invece, ma ugualmente in grado di agire sugli equilibri mondiali, l’esito delle elezioni americane. Il possibile ritorno di Trump – oggi favorito nei sondaggi – alla Casa Bianca, determinerebbe, secondo i commentatori politici, un sostanziale isolazionismo degli Stati uniti – “America First”, il suo motto – con un progressivo ritiro di Washington dal mondo, con la conseguenza di “consegnare” gli attuali alleati europei e asiatici sotto l’influenza dei regimi autoritari della Cina e della Russia. Un regalo, in più, per Putin che potrebbe, così risolvere, a suo vantaggio, il conflitto con l’Ucraina e riprendere la sua politica di destabilizzazione della Nato. Di fronte a tali possibili scenari, aggravati, oggi, dall’aumento dei prezzi delle merci per le difficoltà delle navi di navigare nel canale di Suez, appaiono semplicemente stucchevoli i ragionamenti sulle candidature alle prossime elezioni che, da settimane, vedono impegnate le nostre forze politiche. Anziché disegnare strategie idonee ad affrontare le possibili conseguenze delle elezioni ”mondiali”, i nostri politici non riescono ad andare oltre il misero calcolo per conquistare un posto in lista.