Nelle ultime ore Iran e Pakistan sembrano avere scelto di porre fine agli scambi missilistici dei giorni scorsi. Per cercare di decifrare gli eventi, inquadrandoli nel clima che, dal quadrante mediorientale, investe l’attenzione mondiale, serve riflettere su alcuni dati.
La strage di Kerman del 3 gennaio è stata rivendicata da Isis-K, mediante un messaggio condito di strali contro l’eretica solidarietà tra sciiti e sunniti, deprecando Hamas, Hezbollah, Jihad islamico e Houthi.
Eppure Teheran pare avere mirato a un ampio ventaglio di sospettati da punire.
Tra questi Jaish al-Adl, il gruppo salafita che, tra altre sigle, lotta contro Iran e Pakistan per l’indipendenza del Belucistan, regione distesa a cavallo del loro confine, ricadendo anche in territorio afghano. Il 17 gennaio i missili iraniani hanno centrato una sua roccaforte in territorio pakistano. La rassicurazione sulle intenzioni fraterne verso il Paese confinante non è bastata a Islamabad, che tempo un giorno ha restituito il colpo, in modo del tutto speculare: mediante missili in territorio iraniano su un presunto covo di terroristi. Con annesso attestato di amicizia spedito a Teheran.
L’attacco dei pasdaran, in effetti, non ha colpito uno Stato di scarso peso: il Pakistan è una potenza nucleare. E negli ultimi tempi vive una preoccupante fibrillazione interna, da quando il golpe bianco dell’agosto 2022 ha deposto il popolarissimo primo ministro Imran Khan, raggiunto dalle minacce di Washington per l’agenda estera rivolta a Pechino e la neutralità sul conflitto in Ucraina. Le proteste di piazza, seguite alla condanna all’incandidabilità (ripetute dopo l’attentato in un comizio e ancora con l’arresto nel maggio scorso), hanno scoperchiato le divisioni nel notabilato feudale e le spaccature negli apparati, egemonizzati da un’etnia punjabi non più compatta attorno alla casta militare, cui non giovano più neanche i controversi favori resi dai talebani locali, in origine coltivati per spalleggiare i mujaheddin afghani contro l’Urss.
Significativo che, nel giorno del raid, Teheran ospitasse il ministro degli esteri dell’India, storica antagonista del Pakistan, per discutere, con la benedizione di Lavrov, del North-South Transport Corridor, il corridoio infrastrutturale tra Bombay e Mosca. E significativa è anche l’attenzione di Pechino sull’instabilità dell’area, cui contribuiscono gli indipendentisti beluci ostacolando la realizzazione nel Porto di Gwadar dello snodo sino-pakistano della Nuova Via della Seta.
Il giorno precedente, i missili iraniani sono caduti sul suolo iracheno, anch’esso tutt’altro che sereno e internamente coeso. Segnatamente, le esplosioni a Erbil, capoluogo del Kurdistan, hanno riguardato una base Usa, il cantiere del nuovo Consolato statunitense, la sede dei servizi di sicurezza curdi e un’abitazione privata, descritta dalle agenzie iraniane come luogo di incontro tra agenti del Mossad e terroristi anti-iraniani: quella del magnate Pesharaw Dizayee, proprietario della Falcon Group, assurta a leader nell’export di petrolio nel dopo Saddam. Nel mentre, i Khaybar Shekan iraniani hanno mostrato per la prima volta l’affidabilità della loro gittata nominale, coprendo una distanza di oltre 1.200 km per cadere a Idlib, in Siria, asseritamente su un obiettivo Isis ovvero su un quartiere generale di al-qaedisti anti-Assad: evidenza di un raggio in grado di raggiungere con precisione anche il territorio israeliano.
Unendo i puntini si può ricavare la concomitanza di diverse logiche e altrettanti segnali. Esplicita è la ratio punitiva che dà seguito agli annunci dopo l’attentato di Kerman. Gli attacchi, in questo senso, rappresentano “atti dovuti” al contempo dimostrativi, con duplice destinazione: a confermare sia presso l’opinione pubblica nazionale, sia presso i nemici (quelli interni e i loro sponsor esterni), la reattività ritorsiva del governo. L’eterogeneità dei bersagli (Isis, al-qaedisti, secessionisti beluci e curdi) non contraddice il profilo dei committenti dato dalle autorità iraniane: “potenze arroganti”, mandanti di “terroristi mercenari”, nelle parole del presidente Raisi.
La varietà degli obiettivi non rivela necessariamente una risposta confusa. Osservate nell’insieme, al di là della ritorsione, le prove di forza suggeriscono una funzione deterrente, implicata nel messaggio con cui l’Iran si rappresenta per nulla intimidito dall’eventuale intenzione degli Usa di esacerbare gli affondi contro gli Houthi, per arrivare a minacciare sempre più da presso la Repubblica islamica.
Teheran si direbbe pronta a rilanciare in caso di allargamento del conflitto,
mostrando di poterlo trasformare in una reazione a catena ben più che regionale, attraverso le micce di contesti già politicamente, in crisi in grado di trasmettere irradiamenti incontrollabili, visti gli attori che vi si potrebbero trascinare. E sarebbe l’avveramento di un incubo peggiore dell’insicurezza dei traffici via Suez.