Gli eventi che, negli ultimi giorni, hanno visto come protagonista Washington sono utili a decifrare il peso determinante che la politica interna Usa potrà esercitare sulle dinamiche di guerra al centro dell’attenzione internazionale.
La visita di Zelensky ha voluto dare un segnale a quanti, nelle ultime settimane, hanno osservato il fallimento della controffensiva, assieme alle difficoltà interne del leader ucraino, stretto tra le critiche dei vertici militari e il calo dei consensi presso una popolazione che – stando ai dati Bloomberg – per un terzo vuole porre fine a una guerra senza prospettive.
Ma il messaggio si è rivolto specialmente agli attori politici statunitensi, segnatamente al Congresso che respinge i tentativi della Casa Bianca di finanziare la guerra con un’iniezione di oltre 100 miliardi di dollari: un rifiuto che equivale a “un regalo di Natale” per Putin, dice Zelensky. Lo ripete Biden, che sa di pregiudicarsi le presidenziali laddove si presentasse al voto con l’onta del tracollo ucraino. Ciò basta per scaricare ogni responsabilità sui repubblicani. A quanto pare, senza sortire esito, dal momento che il Grand Old Party resta fermo sulle proprie posizioni, rilanciando con la necessità di concentrare le spese sulle priorità di politica interna. Specialmente sul contrasto all’immigrazione con annessa riforma in tema di visti e cittadinanza. Un ambito su cui d’altra parte Biden sa di non poter trattare con troppa disinvoltura, ora che i sondaggi danno Trump in vantaggio. Infatti, la tentazione di inseguire l’elettorato sensibile su simili temi, sperando al contempo di strappare ai repubblicani il rifinanziamento della guerra, lo esporrebbe al rischio di alienarsi il voto dell’elettorato di sinistra.
Restano sullo sfondo i rumors sulla bozza di accordo con la Russia per la cessazione del conflitto (per la Casa Bianca da rinviare comunque all’indomani delle presidenziali), contemplando il congelamento degli assetti territoriali disegnati dal conflitto, la neutralità militare ucraina e l’ingresso di Kiev nella Ue.
In proposito, la dichiarazione di Biden in conferenza stampa, con al fianco Zelensky, suggerirebbe una possibile apertura. Nelle parole del presidente Usa, l’ingresso di Kiev nella Nato adesso è fuori discussione, in assenza del consenso unanime dei membri e di altri requisiti: ora è necessario solo permettere alle forze ucraine di continuare a combattere. Eppure, non erano questi i termini delle dichiarazioni dei mesi scorsi, né lo erano alla vigilia dell’invasione decisa da Mosca, che ancora a gennaio 2022 tuonava contro le esternazioni di Stoltenberg e Blinken in ordine alla “iscrizione atlantica” dell’Ucraina.
Proprio sull’integrazione in Ue e sul rifinanziamento della guerra discuterà nelle prossime ore il Consiglio europeo. Sul tavolo ci sono ancora i 50 miliardi da inserire nel bilancio 2024-2027 più i 20 previsti dalla cosiddetta European Peace Facility. Ma, nonostante i buoni servigi di Ursula von der Leyen, Washington sa di non poter riscuotere ancora molto dall’Europa. L’aumento delle spese militari in seno alla Nato (da portare al 2% del pil nel 2024) di cui molti membri Ue fanno parte non concilia con la coperta accorciata dall’impasse economica. Bulgaria e Slovacchia, lanciandosi in avanscoperta, hanno revocato l’invio di mezzi già varato, mentre le principali cancellerie stanno a guardare. Sotto tale aspetto l’Ue sconta la sovrapposizione duplicativa degli oneri per gli impegni atlantici: voci di spesa che, nel frangente attuale, gravano sia a titolo di allineamento europeo a Washington sia in virtù delle quote associative decise dalla Nato. Ma soprattutto l’Ue paga la sua eteronomia, l’inconsistenza politica e le rivalità interne che inibiscono i soci di maggioranza, stanti i timori di esporsi – a mo’ di parafulmine altrui – nel disattendere le consegne di Washington, pur auspicando nel silenzio strade alternative a quelle decise Oltreoceano.
Il sì all’adesione all’Ue di Kiev non è pacifico.
Diversi Paesi si riconoscono nelle preoccupazioni esternate da Orbán sull’ipotesi di adempiere proprio oggi le promesse di europeizzazione fatte dai maggiorenti occidentali che nel 2013-14 incoraggiavano l’Euromaidan (quando però l’Ucraina non era né in guerra né in stato fallimentare come oggi). Il leader ungherese preannuncia il no alla procedura accelerata, constatando le analisi per cui i caratteri socioeconomici e istituzionali ucraini metterebbero a rischio le politiche agricole e di coesione Ue. Ma i 10 miliardi appena sbloccati da Bruxelles a favore di Budapest potrebbero strappare il ripensamento ungherese, magari attorno a una soluzione sofistica: adesione sì, ma non rapida.
Al di là di simili contrattazioni, è pur vero che l’integrazione potrebbe incoraggiare un percorso alternativo alla conflittualità ad libitum, laddove la presenza di Kiev in Ue incentivasse a battere strade di composizione intelligente, pur di non importare le escandescenze tra Kiev e Mosca. Ma anche questo presuppone il superamento dell’eteronomia e dell’inconsistenza di cui sopra. Di esse si danno ulteriori tracce al cospetto del dramma che si sta consumando in Medioriente, viste ancora le posizioni europee nelle deliberazioni dell’Assemblea Onu per il cessate il fuoco. Il 27 ottobre, in tema di tregua umanitaria, i voti a favore furono 120, 14 i no, 44 gli astenuti. Nella risoluzione del 12 dicembre, i sì sono aumentati a 153, i no scesi a 10 (Israele, Usa, Repubblica Ceca, Austria, Papua Nuova Guinea, Micronesia, Guatemala, Liberia, Nauru, Paraguay). Le 23 astensioni corrispondono sintomaticamente alla scomodità dei governi europei, stretti tra l’allineamento a Washington e la condanna internazionale per il massacro dei civili (giunti a oltre 18mila, di cui 7 mila bambini).
Comunque la si metta, sul versante mediorientale resta dirimente l’iniziativa di Washington. Che ora teme meno l’allargamento su larga scala del conflitto, finora scongiurato dalla deterrenza delle forze Usa nell’area, dal sostanziale distacco delle petrolmonarchie sunnite verso la questione palestinese e stante l’indisponibilità prudenziale di Tel Aviv e Teheran a scontrarsi frontalmente. Per la Casa Bianca oggi pesa più l’erosione del soft power sull’opinione pubblica mondiale, che esecra il doppiopesismo in tema di diritto internazionale umanitario. Il voto in Assemblea Onu è stato inequivoco, pur nella sua ineffettualità (diversamente sarebbe per quello del Consiglio di Sicurezza, se non fosse bloccato dal veto a stelle e strisce).
Non preoccupa meno l’orientamento pro-palestinese che cresce nella società statunitense, specialmente nell’elettorato giovanile, su cui Biden fa conto. Entrambe le variabili critiche spiegano la sonora censura che il presidente ha appena rivolto a Netanyahu, ammonendolo sul suicidio strategico all’orizzonte per invitarlo a scaricare gli estremisti del suo governo e ad accettare la soluzione dei due Stati, esclusa dal leader israeliano ancora nei giorni scorsi.
Nelle parole di Biden, Israele si sta alienando il sostegno del mondo. Alienazione che invero costa di più alla Casa Bianca, con implicazioni profonde anche nel versante domestico. Le mosse che matureranno nella politica interna degli Usa sulla questione ucraina e su quella palestinese sapranno mostrare il grado di connessione che essa conserva rispetto agli indirizzi dell’ordine mondiale.