(dagli Stati Uniti) L’ho incontrato a New York, nel settembre del 2022 in occasione della premiazione di Mario Draghi come statista dell’anno. La Fondazione Appeal of Conscience teneva una cena di gala per celebrare l’ex primo ministro italiano e Henry Kissinger era stato invitato a tenere la laudatio. Era arrivato sommessamente, in sedia a rotelle e circondato dalle sue guardie del corpo. E’ entrato in sala stampa e ha atteso con noi giornalisti per circa 15 minuti, mentre tutti gli invitati prendevano posto e i discorsi introduttivi si susseguivano. Proibito fargli domande o scattare foto. Ci osservava in silenzio, meditabondo. Qualcuno dei colleghi sospettava che stesse dormendo. Invece sono bastate poche parole a fianco di Draghi perché Henry Kissinger si mostrasse ancora una volta Henry Kissinger: il perenne segretario di stato statunitense. A lui non si addiceva il prefisso ex, perché continuava ad essere il simbolo vivente della diplomazia americana, nonostante le controversie politiche e storiche che hanno accompagnato il suo operato e la sua persona, ben oltre gli otto anni in cui è stato in carica.
Kissinger è morto mercoledì 29 novembre alle tre del mattino nella sua casa in Connecticut, da centenario: il 27 maggio scorso il suo compleanno era stato celebrato con un ricevimento al quale avevano partecipato sia il segretario di stato americano Antony Blinken che il direttore della Cia.
Nato da una famiglia ebrea nella Germania di Weimar nel 1923, Kissinger fuggì a New York con la sua famiglia nel 1938 all’età di 15 anni per sfuggire alla persecuzione nazista, che uccise invece 13 dei suoi familiari, tra cui la nonna. Tornò in Germania da militare statunitense durante la seconda guerra mondiale e liberò un piccolo campo di detenzione di prigionieri ebrei. Un’esperienza che lo segnò profondamente. Tornato negli Usa si laurea ad Harvard e diventa professore ordinario di politica dei governi. Il suo lavoro accademico si concentra proprio su quella realpolitik che contraddistinguerà anche i suoi incarichi di segretario di stato, con un focus proprio sul ruolo delle grandi potenze nel manovrare e promuovere i propri interessi per far fronte ad un sistema internazionale anarchico.
Sia per la sua genialità che per le sue capacità diplomatiche, Kissinger è stato dietro ogni presidente americano dal 1969 in poi, rivestendo ruoli attivi e di consigliere diplomatico indipendente. Kissinger ha anche ricevuto un controverso Premio Nobel per la Pace nel 1973, principalmente per aver contribuito a porre fine alla guerra del Vietnam. La decisione di insignirlo di questa onorificenza, fu seguita dalle dimissioni di due membri della Commissione per il Nobel e dal rifiuto di Le Duc Tho, capo della commissione centrale organizzativa del Partito Comunista del Vietnam, co-assegnatario assieme all’allora segretario di stato Usa.
Ha voluto fare degli Stati Uniti un baluardo contro la tirannia e il totalitarismo, anche se quando si trattava di difendere gli interessi americani, non si è fatto mai problemi nel sostenere tiranni e dittatori, in virtù del pragmatismo politico che ha guidato sempre il suo lavoro, fino agli ultimi giorni, quando ha suggerito che la linea diplomatica per risolvere la guerra tra Russia e Ucraina passasse dalla linea di confine da cui la guerra era cominciata. Il segretario americano è stato il pioniere della politica di distensione con l’Unione Sovietica. Ha aperto relazioni diplomatiche con la Cina, ha negoziato la fine della guerra dello Yom Kipur e seppe riunire il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin. Il supporto ai bombardamenti della Cambogia per frenare il rifornimento delle truppe vietnamite; il sostegno al colpo di stato militare cileno del 1973, che destituì l’allora presidente Salvador Alliende come l’appoggio all’operato della giunta militare argentina e alle atrocità compiute dal Pakistan in Bangladesh, restano tra le pagine più controverse delle sua carriera. Nel 2015, quando da 91enne Kissinger comparì davanti alla commissione per le forze armate del Senato, decine di manifestanti irruppero nella seduta chiedendo l’arresto dell’ex segretario di stato per crimini di guerra.
Le sue origini ebraiche non si sono tradotte in una pratica religiosa. Incontrando Golda Meir disse di essere prima un americano, poi un nixonista e per ultimo un ebreo. A 99 anni, nel libro “Leadership. Sei lezioni di strategia globale”, descrivendo sei leader per cui nutriva ammirazione, Kissinger sottolineava che il tedesco Konrad Adenauer, il francese Charles De Gaulle, Richard Nixon, l’egiziano Anwar Sadat, Lee Kuan Yew di Singapore e Margaret Thatcher del Regno Unito erano tutti profondamente religiosi, con la possibile eccezione di Lee Kuan. Proprio l’erosione dello spirito religioso e degli scopi morali che hanno sostenuto le società occidentali, per Kissinger stavano alimentando le spinte divisive e distruttive della politica americana. Forse proprio per conservare un po’ di quello spirito, negli ultimi anni, l’ex segretario di stato era stato incrociato, in parecchie occasioni festive in una sinagoga ortodossa, anche se per lui “la qualità indispensabile per un leader di successo è la fede nel futuro” più che in una tradizione religiosa.