Come starà Naima? I ragazzi della Holy Family School staranno continuando a studiare? Le suore della parrocchia latina della Sacra Famiglia riusciranno ancora a trovare la forza di sorridere ai bimbi di cui si prendevano cura? Sono stati i miei primi pensieri quando, lo scorso 7 ottobre, è arrivata la notizia dell’attacco di Hamas a Israele, che ha dato inizio a una guerra sanguinosa e spaventosa, che in meno di due mesi ha ucciso oltre 10mila persone.
Quando leggo degli orrori che si stanno compiendo, quando vedo le immagini dei luoghi distrutti, delle persone che hanno perso tutto, la mia mente va al viaggio che nel novembre del 2015 mi ha portato, insieme a un gruppo di giornalisti della Fisc (la Federazione italiana dei settimanali cattolici), in Israele.
Una settimana intensa in cui abbiamo visto con i nostri occhi cosa significa vivere in quei luoghi, in cui abbiamo conosciuto persone che non avevano nulla ma davano tutto per aiutare gli altri. Abbiamo fatto tappa a Gerusalemme, a Betlemme e infine nella Striscia di Gaza. Abbiamo percorso con il cuore pesante il lungo corridoio che separa il resto del mondo da quel lembo di terra. Ad accoglierci trovammo il parroco, padre Mario Da Silva, che allora guidava la parrocchia latina della Sacra Famiglia, nel nord della Striscia. In quegli spazi oggi convivono oltre 700 cristiani sfollati, che non hanno più nulla e si sono rifugiati lì per cercare riparo dai razzi, dalle esplosioni, dalla violenza che imperversa ovunque. Hanno deciso di non spostarsi al sud, come intimato da Israele, perché quella è la loro terra e perché per molte persone, con disabilità o gravi patologie, affrontare un viaggio sarebbe impossibile. Anche otto anni fa quella parrocchia era un luogo di accoglienza. Padre Mario, insieme alle suore di Madre Teresa di Calcutta, si prendeva cura di bambini e ragazzi spesso abbandonati dalle famiglie, di persone malate e anziani soli, che altrimenti non avrebbero saputo come sopravvivere. Ripenso alle parole di don Mario, quando ci raccontava che per loro, purtroppo, avere a che fare con il sibilo dei razzi e delle bombe era la norma.
Da quando si era ritirato da Gaza nel 2005, Israele aveva già combattuto tre guerre con i terroristi di Hamas, nel 2008, nel 2012, nel 2014. “Una notte abbiamo ricevuto una chiamata. Potevamo essere uno dei bersagli del bombardamento previsto nelle ore successive. Ci veniva chiesto di andarcene, ma non sapevamo come trasportare le persone invalide e gli ammalati, né tantomeno dove portarli. Ci siamo stretti gli uni agli altri e abbiamo pregato”. Mi chiedo come stiano, oggi, quelle suore, quei bambini, quegli anziani. Mi chiedo se, come raccontava don Mario, si abbracciano ancora “cercando conforto, cercando una speranza nel buio della notte mentre il rumore delle esplosioni è sempre più vicino”. Mi chiedo se le suore che ho conosciuto sorridono come facevano allora, anche se vivevano in un paese dove la vita era sempre appesa a un filo. Il giorno in cui ci accolsero in parrocchia quei sorrisi erano per noi, per quei “volti amici” di cui, ci dissero, avevano “molto bisogno”. Ci offrirono il pranzo, probabilmente uno dei più belli a cui io abbia mai preso parte. Eravamo in una cucina poco illuminata e anche poco riscaldata, attorno a un tavolo apparecchiato ‘alla meglio’ con qualche bottiglia di aranciata e le pizze da asporto, che condividemmo pescando direttamente dai cartoni. Le suore non conoscevano molto l’italiano, comunicare a parole non era semplice.
Eppure di quel pranzo io non ricordo il silenzio, il freddo o la penombra. Ricordo i sorrisi, il cuore carico di emozione, gli sguardi pieni di gioia, la riconoscenza reciproca. Non serviva altro per illuminare, riscaldare e riempire quella stanza. Gli stessi sguardi e gli stessi sorrisi riconoscenti li ho ritrovati spesso durante la nostra permanenza a Gaza. Come quando entrammo nelle classi della Holy Family School, una delle tre scuole cattoliche della Striscia. Bambini e ragazzi non vedevano l’ora di parlare con noi. Nonostante la loro giovane età, tutti avevano conosciuto gli orrori della guerra. Tutti avevano perso un familiare, un amico, un parente sotto le bombe. Ma resistevano:
“Non smettiamo di sognare. Il nostro modo di combattere è studiare”.
In tanti volevano frequentare l’università, dopo il diploma. Senza andarsene dalla Striscia, ma “cercando di fare qualcosa qui, nella nostra terra, che speriamo un giorno di poter cambiare”. Mi chiedo come stanno, cosa fanno oggi, se sono rimasti a Gaza, se riescono, nonostante tutto, a sperare ancora.
Poi ripenso a Naima, che allora aveva 84 anni. Viveva in un piccolo appartamento, buio e freddo. Non aveva nulla, spesso nemmeno i soldi per comprare le medicine. Eppure, al nostro arrivo in casa sua, era riuscita a trovare un pacchetto di caramelle che ci aveva offerto per darci il benvenuto. Da 25 anni non vedeva i figli, non aveva mai conosciuto i nipoti. Gaza era la sua terra: “Qui sono nata e qui voglio morire”. Mi domando se Naima è ancora viva, se litiga ancora con quell’immagine stropicciata di Gesù che teneva tra le mani e a cui si rivolgeva quando non aveva nulla da mangiare. Ricordo ancora la sua voce rotta dal pianto quando ci raccontava della solitudine, della sofferenza, delle difficoltà della vita di ogni giorno. Mi chiedo se riesce ancora a inseguire quel sogno che volle condividere con noi: “Vorrei tanto che il Papa venisse qui. Mi piacerebbe conoscerlo e incontrarlo di persona”. Mi chiedo se si aggrappa ancora al suo “mare. A Gaza è bellissimo”.