A due settimane dall’attacco di Hamas, l’inferno di esplosioni continua a mietere morti innocenti, con uno sgomento che, per pudore oltre che per cognizione, impedirebbe di ostinarsi nella semplificazione dialettica di azione/reazione.
I razzi contro Israele ora provengono anche da Yemen e Iraq, mentre altri puntano sulle basi Usa in Siria. Nel mentre, sembra delinearsi la tattica israeliana in questa prima fase, emula di quella autorizzata da Kennedy contro i vietcong: bersagliare dal cielo il settore nord della Striscia per spingere la popolazione terrorizzata a sfollare verso sud, così da creare una zona di “fuoco libero” in cui penetrare via terra. Di qui procedere spianando la strada con bombe Jdam, capaci di perforare il suolo sino a 50 mt e di propagare onde orizzontali di mezzo miglio, per annientare la resistenza nel temuto reticolo di tunnel. Ma
concentrare le forze su Gaza, scoprendo Cisgiordania e confine libanese, potrebbe scoprire il fianco a Hezbollah (secondo alcune fonti pronta con 100mila uomini e 130mila missili): ciò sancirebbe l’allargamento del conflitto di cui l’Iran potrebbe intestarsi la partecipazione,
dato che altre forze sciite muovono da est per congiungersi con quelle stanziate in Siria (ad Aleppo, per esempio, già bersagliata due volte da Israele).
Intanto
le proteste contro la mattanza di civili nella Striscia hanno già infiammato le piazze di Beirut, Istanbul e Amman. Esse confermano il cinico calcolo di Hamas,
che il 7 ottobre ha gettato i governi arabi sotto la pressione delle rispettive società, arrestandone la normalizzazione a trazione economica con Israele, funzionale alla exit strategy Usa dalla regione che pareva destinare i palestinesi all’oblio: ignorati dagli Accordi di Abramo e con la tacita disponibilità dei leader arabi a distrarsi dai “fratelli” sotto segregazione e occupazione. Se avvenisse, l’invasione di Gaza assumerebbe i tratti di una guerra di sterminio. Allora le agitazioni popolari potrebbero costringere i leader arabi a intervenire. Così Washington, alludendo di saper moderare Tel Aviv, è parsa sulle prime rassicurarli per ottenere la loro l’astensione. Tuttavia sarebbe proprio l’astensione ad aizzare nelle strade l’accusa di tradimento. Del resto,
la visita di Biden in Israele è sembrata annunciarsi come mossa per mitigare l’oltranzismo di fine corsa di Nietanyahu. E invece le dichiarazioni al ritorno in Casa Bianca hanno suggerito una sorta di trasfert inverso, con Biden a rivendicare agli Usa il titolo di più grande potenza militare della storia mondiale, per prepararsi a chiedere al Congresso – con non si sa quali aspettative – un surplus di finanziamento in armi a Kiev e Tel Aviv (oltre ai fondi per serrare la frontiera messicana in rivalità con Trump). Plausibile o no il parallelo tra Ucraina e Israele (respinto da quest’ultimo nel rifiutare la visita di Zelensky pronto al decollo), l’ipotesi di un altro dispendioso sostegno apre a scenari di conclamata insostenibilità.
Soprattutto si intravede l’affanno unipolare di una superpotenza ostaggio del suo ruolo, che impone di nascondere lo stress iperestensivo e vieta di mostrare timidezze per le falle nei teatri già destabilizzati da cui oggi pur vorrebbe disimpegnarsi. Con il paradosso però di esasperarli anziché placarli. Le portaerei e i caccia appena dislocati a scopo deterrente verso terzi fotografano le suddette contraddizioni, giacché lo scudo può suggerire a Tel Aviv di avere carta bianca, dando inoltre agio a Russia e Cina di dipingere gli Usa come attore eversivo, prolungando la linea tra Iraq, Libia e Siria. Così anche la proposta di risoluzione Onu per imporre una tregua umanitaria, bocciata dal veto statunitense. Oltre ad alimentare l’antiamericanismo, simili posture finiscono di nuovo per includere l’Occidente tra le parti in conflitto, negandogli funzioni di mediazione trasversalmente accreditabili, pur necessarie nell’ennesima area che Washington non può abbandonare alle insidiose manovre conciliative di Pechino.
Questo però non vuol dire accettare ciecamente il rischio escalativo. Gli Usa, senza compromettersi, potrebbero puntare sulla Turchia: legata a Israele sul piano militare ed energetico, interessata a stabilizzare l’area, membro Nato ma guidata da un partito islamico conservatore, essa potrebbe fare leva su Hamas mediante il Qatar, pedina regionale di Ankara e munifico sostenitore dei palestinesi. È solo una delle riserve tattiche da auspicare, per fermare la tragedia e disinnescare la miccia di una deflagrazione dagli effetti imponderabili.