“La situazione a Gaza è terrificante: macerie ovunque, strade interrotte, non c’è elettricità, non c’è acqua, non c’è cibo. Le comunicazioni sono saltate, anche la rete internet eccetto che in alcune zone. L’esercito israeliano spara ad ogni cosa, fabbriche, negozi, abitazioni, persone anche agli animali”. Mentre parla con il Sir dalla parrocchia latina della Sacra Famiglia di Gaza, dove si trova con la sua famiglia, George Antone, direttore amministrativo di Caritas a Gaza, invia – a mezzo social – foto e spezzoni di video per dare ancor più peso alle sue parole.
L’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso, e la conseguente, durissima, reazione dell’esercito israeliano, ha fatto ripiombare la popolazione gazawa nell’incubo, mai sopito, della guerra. Da quando si è ritirato da Gaza nel 2005, Israele ha già combattuto ben quattro guerre con i terroristi di Hamas, nel 2008, 2012, 2014 e 2021. Questa è la quinta che sta mietendo un numero impressionante di vittime e feriti da ambo le parti, come mai accaduto fino ad oggi. A rendere ancora più incandescente la situazione sul terreno l’ultimatum di Israele alla popolazione di Gaza a spostarsi da nord e centro verso il sud della Striscia – in vista dell’offensiva terrestre – e la strage, con centinaia di morti e feriti, all’ospedale anglicano Al-Ahli con rimpallo di responsabilità tra Hamas e Israele. Sin da subito la parrocchia latina ha aperto le porte agli sfollati ed oggi, a due settimane dallo scoppio della guerra, è diventata un presidio di solidarietà e di umanità al quale anche Papa Francesco guarda con attenzione e vicinanza. Più volte il Pontefice ha chiamato direttamente la parrocchia e il parroco, padre Gabriel Romanelli, che a causa della guerra è ancora bloccato a Betlemme e in attesa di rientrare nella Striscia.
Antone, come è la situazione in parrocchia, qual è lo stato d’animo dei fedeli che vi hanno trovato rifugio dalle bombe e dai razzi?
Nella nostra parrocchia cattolica della Sacra Famiglia attualmente accogliamo oltre 500 sfollati cristiani mentre altri 350 sono in quella greco-ortodossa di san Porfirio. Molti hanno perso la casa, il lavoro, i loro negozi sono andati distrutti o parzialmente danneggiati dai bombardamenti. Qui siamo tutti preoccupati, impauriti e confusi, perché non sappiamo cosa potrà accadere in futuro.
Come avete reagito alla strage nell’ospedale cristiano al Ahbi, della Chiesa anglicana?
Tutti qui in parrocchia sono rimasti inorriditi da questo ignobile attacco. Abbiamo sempre creduto, e non solo noi, che i luoghi cristiani fossero sicuri perché non coinvolti a livello politico, militare, ideologico. Essi offrono servizi a chiunque, senza distinzioni, sono a servizio della comunità nella sua interezza. Per questo motivo l’attacco all’ospedale al Ahbi ci ha scioccato. Un luogo di aiuto umanitario, come un nosocomio, che non è stato rispettato, profanato. L’ospedale anglicano non faceva altro che curare e assistere le persone, invece è stato attaccato. Un gesto criminale.
Come vi siete organizzati in parrocchia per fronteggiare questa emergenza umanitaria?
Come Chiesa stiamo cercando fare fronte a questa gravissima emergenza cercando di tenere insieme tutte le persone nel compound parrocchiale. Ci sono famiglie, anziani, malati, disabili. Diamo loro, per quanto possibile, acqua, cibo, e un po’ di energia elettrica. Inoltre stiamo cercando di reperire materassi e coperte perché non ne abbiamo a sufficienza per tutti. Cerchiamo di trasmettere loro un po’ di serenità e di sicurezza, nella gravità del momento.
In concreto che iniziative avete messo in campo?
Ci siamo organizzati in piccoli team, ognuno con un incarico specifico: grazie a Caritas Gerusalemme abbiamo avviato un piccolo ambulatorio dove diamo medicine, forniamo visite. Un altro gruppo si occupa della cucina, un altro di telecomunicazioni così da avere maggiori possibilità per comunicare. Abbiamo alcune auto della Caritas che servono a trasportare persone, per esempio, in ospedale per visite specialistiche. Uscire dalla parrocchia e andare in giro è pericoloso. Lo facciamo solo per emergenze.
Ci sono anche tantissimi bambini. Cosa fate per loro?
Vero, abbiamo molti bambini e ragazzi qui in parrocchia. Essi passano le loro giornate giocando, pregando, studiando nei limiti consentiti dalla situazione. Da parte nostra facciamo il possibile per farli sorridere alleviando loro il peso enorme di questa tragedia.
Hanno avuto una grande eco le telefonate arrivate da Papa Francesco che vi ha espresso vicinanza e preghiera…
Papa Francesco ci chiama spesso per sapere come stiamo e per esprimerci tutta la sua solidarietà e preghiera. Questo ci conforta moltissimo perché non ci sentiamo abbandonati a noi stessi. Riceviamo tanto sostegno umano, spirituale e materiale anche dal patriarca latino, card. Pierbattista Pizzaballa, e da tutta la diocesi patriarcale.
Nei giorni scorsi l’Esercito di Israele ha intimato a tutti gli abitanti del nord e del centro di Gaza di evacuare verso il sud, decisione che dovrebbe precedere l’offensiva terrestre. Voi avete deciso di restare, perché?
Abbiamo deciso insieme al parroco, padre Gabriel Romanelli, e al patriarca, card. Pizzaballa, di restare dentro la parrocchia e non spostarci al sud della Striscia, come intimato da Israele perché questa è la nostra casa, questa è la nostra terra natia. Ogni giorno preghiamo e chiediamo la protezione di Gesù. Siamo certi che ci proteggerà dal male che ci circonda. A Gaza non mancherà mai la presenza cristiana che è un segno di speranza per tutti.
Come vede il futuro di Gaza?
Il futuro di Gaza? Pensiamo intanto a sopravvivere e poi quando anche questa guerra sarà finita torneremo a ricostruire le nostre case, la nostra città, i nostri luoghi di lavoro, come abbiamo sempre cercato di fare in questi anni. Fare questo significa anche curare i tanti traumi che questo conflitto sta provocando nei gazawi. Ricostruiremo la nostra città ma adesso, ripeto, dobbiamo pensare a proteggere le nostre famiglie, i nostri bambini. Questa è la priorità. Non sappiamo, infatti, cosa accadrà in futuro.
In mezzo a tanti dubbi e angosce resta solo una certezza che Antone ha ‘postato’ sui suoi social e sono parole di Thomas More: “Non c’è dolore sulla terra che il cielo non possa guarire”.