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Haiti: in attesa dell’Onu, la vita a Jérémie “zona franca”. Padre Miraglio: “Qui sui monti si sale a dorso di mulo”

Le Nazioni Unite hanno deciso di inviare un contingente militare: il Paese centro americano è in balìa della guerriglia tra bande armate. Ma c'è una località montana che resiste, perché pressoché irraggiungibile, tra povertà e speranza. Il missionario Massimo Miraglio racconta come si sopravvive, sfidando disastri provocati dalla natura e violenza umana

Processione a Jeremie (Foto M.M.)

Il mercato più vicino a Purcine, villaggio montano a sud ovest di Haiti, dista quattro ore di cammino a piedi dal centro abitato. Si vanno a vendere i prodotti della terra (soprattutto fagioli, da quando l’uragano Mattew ha distrutto le piantagioni di caffè) a dorso di mulo. Tuttavia “la zona di Jérémie è una bolla di salvezza”, una zona franca al di fuori della guerriglia tra le gang che stanno completamente distruggendo Haiti. Ce ne parla uno dei pochissimi missionari italiani rimasti in questo inferno caraibico: padre Massimo Miraglio, camilliano, da 18 anni nel Paese senza più Stato.

In arrivo i Caschi blu. A pochi giorni dall’approvazione della risoluzione n. 2699 delle Nazioni unite, che autorizza una missione multinazionale a guida keniota per “proteggere” Haiti, i missionari italiani tirano un sospiro di sollievo. Ma non abbassano la guardia. Sanno che anche le missioni dell’Onu possono fallire, come avvenuto nel 2004 con il contingente a guida brasiliana che rimase per 13 anni ma fu costretto ad ammettere la sua impotenza. “Le gang armate sono ovunque, ma non arrivano fin quassù da noi. È successo solo una volta ma erano uomini cresciuti qui a Jérémie e conoscevano bene la zona. Noi, su queste montagne di Purcine, siamo al riparo dalla guerriglia perché nessun mezzo ci può arrivare se non i muli”, precisa padre Massimo al telefono. Il collegamento a internet è intermittente e va per fasce orarie: la comunicazione con il resto del mondo è praticamente assente. A Jeremie non c’è corrente, nel villaggio non c’è acqua. L’ospedale non esiste. Si procede al buio e si beve e ci si lava grazie alla raccolta d’acqua piovana.Ma in questa oasi di bellezza e precarietà, precedentemente distrutta dalla forza brutale dell’uragano Mattew, almeno non c’è guerra. “Noi siamo in un piccolo villaggio di montagna e questa è la nostra fortuna”, commenta il camilliano.

A destra padre Massimo Miraglio (Foto M.M.)

Un altro ciclone spazzerebbe tutto. La comunità creola è resiliente, spiega il missionario, e “le persone si sono riprese dopo la devastazione climatica, ma le loro case sono fragili e, se dovesse di nuovo abbattersi su di noi un ciclone, non rimarrebbe vivo nessuno qui, neanche io”. Padre Massimo aveva chiesto lo scorso anno di fare esperienza da Jeremie, in una parrocchia dove ci fosse almeno una cappellina e l’ha trovata: “Dal 4 agosto scorso sono qui come parroco – racconta – nella chiesa della Madonna del perpetuo soccorso”. Questa comunità di 4mila anime ha adesso un pastore per la prima volta da quando è nata.

Violenze quotidiane e forza della fede. Il far west di un Paese senza Stato, completamente in balia delle gang, è una condizione quasi inevitabile. Non c’è modo di difendere le persone, nonostante si speri moltissimo in questa missione dell’Onu richiesta dal governo haitiano. C’è però senza dubbio una fede immensa e la forza della missione può fare la differenza qui. “La parrocchia è un punto di riferimento, il centro di tutto: dovete pensare che qui si vive come tra i pionieri del far west” dove “la quotidianità era fatta di lavoro, religione, mercato o fiera. Le persone però sono moderne e sono molto attive: c’è un dinamismo che non potete neanche immaginare”.

Il documento dei vescovi. La Conferenza episcopale haitiana di fronte al quotidiano scenario di morte e desolazione che accompagna da anni il Paese caraibico, a settembre scorso, aveva scritto un appello accorato. “Che cosa dobbiamo fare, come Chiesa e come popolo, per impedire alle gang armate di ucciderci, di massacrarci tutti?”, scrivevano i vescovi. In dieci avevano firmato un documento rivolto “al popolo di Dio, agli uomini e alle donne di buona volontà”, ammettendo tutta la loro impotenza. Il terrore vissuto ogni giorno nella capitale, per esempio a Carrefour-Feuilles o a Lilavois (per non citare che due dei quartieri sotto scacco delle bande) e il massacro nella zona di Canaan “sembrano confermare che è stata data carta bianca alle gang per agire contro la popolazione”, denunciavano i vescovi.

*redazione Popoli e Missione

 

 

 

 

 

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