Un faccia a faccia importante ma non risolutivo. L’incontro a Pechino fra il segretario di Stato di Washington, Antony Blinken, e il ministro degli esteri cinese, Qin Gang, rappresenta un passaggio significativo, preludio di altri meeting che potrebbero mantenere vivi i rapporti fra le due super potenze. Sul tavolo sono innumerevoli i dossier aperti, a cominciare dal futuro di Taiwan, da sempre nelle mire di Pechino. Al Sir Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, parla di una contrapposizione fra Cina e Stati Uniti che prende la forma di una coesistenza pacifica competitiva.
Direttore, l’incontro fra Cina e Usa è un buon segno?
Questo colloquio è importante ma è solo un pezzo della storia. La cautela è d’obbligo, tuttavia ci sono alcuni temi che potrebbero essere affrontati. I cinesi hanno sempre adottato una strategia di comunicazione su più livelli, dove i piani più alti sono più morbidi. Al di là dei sorrisi di oggi, c’è molta diffidenza reciproca. Esiste una pratica valutazione di distanze, interessi e possibilità per ridurre le tensioni. Fra i due Paesi, ci sono interessi comuni sui quali il Congresso repubblicano vuole che i cinesi collaborino. Un esempio sono le droghe sintetiche, divenute una piaga nazionale ed un tema politico. La Cina è una grande nazione produttrice, ma non è l’unica perché è insieme a paesi nel Nord e Sud America, in Europa e nel Sud-Est asiatico. Gli Stati Uniti vogliono che i cinesi collaborino con la Drug Enforcement Administration, limitando il flusso di precursori chimici, senza però voler affrontare in modo diretto la causa, cioè i rapporti stretti fra mafie che permettono il traffico. Un mondo in cui i cartelli messicani sono una superpotenza mafiosa in combutta con triadi e ‘ndrangheta, è assai più inquietante rispetto ai terrorismi ed alle tensioni calcolate tra potenze.
Anche quando è scoppiata la guerra in Ucraina, lei ha sempre invitato a guardare alla questione di Taiwan, per la sua importanza negli equilibri internazionali.
La Cina affaccia sul mare ed è l’Oceano Pacifico. Usa e Cina sanno che è necessario un accordo verso una coesistenza pacifica competitiva. Molti analisti parlano di guerra fredda fra i due Paesi, ma la situazione è molto diversa perché la conflittualità nel mondo è molto più sregolata. Su Taiwan la Cina è chiara: vuole la riunificazione nazionale; a noi italiani, che abbiamo impiegato cento anni per raggiungere lo stesso obiettivo, non dovrebbe suonare strano. Una guerra però non è il modo migliore e i cinesi stanno capendo che un conflitto potrebbe creare più problemi anche nel lungo termine. La soluzione consensuale non è impossibile, ma complicata perché va costruita una fiducia reciproca. È chiaro che esistano problemi seri fra Cina ed Usa. Entrambi hanno le idee chiare su quello che vogliono, ma il giusto compromesso per raggiungere gli obiettivi non è certo. Vedremo se questo incontro sarà da preludio a un meeting migliore al G20 che, notiamo, sta diventano un foro più importante del G7.
Il multipolarismo promosso da Cina e Russia sta soppiantando il multilateralismo dell’Onu?
Si tratta di parole in codice, che rinviano a chi scrive o dovrebbe scrivere le regole globali, ma perfino nel documento tedesco di strategia della sicurezza si parla di un mondo più multipolare.
La recente missione del cardinale Zuppi in Ucraina può essere un passaggio concreto?
Sì, la battaglia per la pace è essenziale. Da tempo ritengo che la guerra ad oltranza non sia oggettivamente sostenibile, proprio in un’ottica di pieno recupero di territori, sicurezza e sovranità. Il presidente ucraino Zelensky ha chiesto agli Stati Uniti di continuare l’alimentazione dello sforzo bellico, ma le condizioni politiche a Washington sono influenzate dalle elezioni imminenti: ora potrà essere utile e realistico trattare. Anche se, a entrambe le parti, Russia e Ucraina, non piacerà perché hanno investito politicamente parecchio in questa sventurata guerra.