Sono già trascorsi due mesi da quando, il 15 aprile 2023, è iniziato a Khartoum, in Sudan, il conflitto tra l’esercito del generale Abdel Fattah Al-Burhan e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) fedeli al generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti. Sono state proclamate una decina di tregue mai rispettate. Evacuati gli occidentali, sono fuggiti dalle loro case circa 2,2 milioni di persone, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Di questi, circa 1,67 milioni sono sfollati interni, mentre altre 528.000 persone, tra rifugiati, richiedenti asilo e rimpatriati, hanno attraversato i Paesi vicini (dati Unhcr) come Ciad, Sud Sudan, Egitto, Etiopia. Ancora una volta a farne le spese sono i civili: secondo l’Oim i morti sono almeno 1.800. Il conflitto si è esteso ad altre città e regioni, tra cui il Darfur, e sta assumendo una dimensione etnica. Attacchi aerei sono anche a El-Obeid, nel Nord Kordofan, una città a 350 chilometri a sud da Khartoum. Il vescovo di El Obeid, mons. Yunan Tombe Trille Kuku Andali ha deciso di restare accanto alla popolazione ma alla stampa locale descrive una situazione drammatica. Si muore sotto il fuoco incrociato dei contendenti e gli aiuti umanitari hanno difficoltà ad arrivare: mancano cibo, acqua potabile, farmaci, elettricità, le comunicazioni non funzionano. Se ne è parlato il 14 giugno a Roma durante l’incontro “Emergenza Sudan: al fianco delle vittime del conflitto da Khartoum al Darfur”, moderato dal giornalista Vincenzo Giardina e organizzato dall’agenzia Dire insieme al portale di informazione Report Difesa.
Da Khartoum si è collegata in video l’attivista Duaa Tariq, raccontando le sue giornate con costante sottofondo del rumore dell’artiglieria e delle contraeree. Duaa vive nel quartiere di Jeraif, lungo la sponda del Nilo azzurro, sotto il controllo delle Forze di supporto rapido (Rsf) ma vicino ad una base dell’esercito. Lei è impegnata in prima line con altri volontari a distribuire generi alimentari, farmaci e aiuti alle famiglie rimaste nel quartiere. Hanno creato dei
comitati di emergenza chiamati “Emergency response rooms” che aiutano le persone
e di fatto stanno assumendo responsabilità di governo, con un coordinamento centrale che copre tutta la grande capitale del Sudan, composta da tre città. Molti provengono dai “comitati di resistenza” che avevano organizzato le proteste popolari del 2019 che avevano portato alla caduta dell’ex presidente Omar Al-Bashir, condannato dal Tribunale penale internazionale per i crimini in Darfur. “Questo conflitto – ricorda Duaa Tariq – arriva dopo quattro anni di rivoluzione continua contro il regime militare e in favore della democrazia”. “Stiamo ancora aspettando che arrivino aiuti umanitari – dice -, finora ne abbiamo ricevuti pochi. Per cui stiamo cercando di organizzare un crowdfunding. In questo momento abbiamo bisogno di tutta la solidarietà possibile ma vogliamo che gli aiuti della comunità internazionale siano decolonizzati. Ci aspettiamo di essere trattati da pari, non da vittime”.
Disastrosa è anche la situazione nella città di El Geneina, nel Darfur occidentale, a 1400 km ad ovest di Khartoum. Ora è sotto il controllo dell’esercito e i combattimenti sono stati molto duri. Il conflitto tra le due formazioni militari ha assunto qui una dimensione etnica, con scontri tra Masalit e tribù arabe. Secondo alcune testimonianze i miliziani delle Rsf starebbero compiendo un’operazione di pulizia etnica, prendendo di mira le popolazioni non arabe. Adam Nor, portavoce della comunità sudanese in Italia, è arrivato in Italia via mare dalla Libia, è un ex bambino soldato obbligato a combattere all’inizio degli anni 2000 durante il conflitto in Darfur. Oggi ha 33 anni e studia all’università. In Sudan ha la madre e il fratello ed è preoccupatissimo. All’epoca imperversavano i “janjaweed”, i cosiddetti “diavoli a cavallo”, appartenenti a milizie di matrice araba. Bruciavano i villaggi, violentavano le donne e uccidevano con estrema brutalità. In seguito sono confluiti nelle Forze di supporto rapido. “Migliaia di civili stanno morendo a El Geneina – racconta Adam Nor -. Scusate l’emozione ma ho saputo da poco che è stata sterminata tutta la famiglia di mio zio.
La gente muore in casa e non si riesce a seppellirli. Non c’è cibo, non ci sono medicine, elettricità, acqua potabile, comunicazioni.
Nessun militare vuole difendere i civili, devono difendersi da soli. Per darci notizie devono andare in Ciad”. Della stessa comunità sudanese è Ibrahim Tigany. Anche lui è arrivato in Italia da minorenne, anche lui ha vissuto una guerra, quella tra Nord e Sud, che causò almeno 2 milioni di morte e ha portato alla divisione tra Sudan e Sud Sudan. “La gente sta soffrendo veramente – dice -. Da quando siamo diventati indipendenti, nel 1956, non abbiamo mai visto la libertà. Abbiamo avuto solo dittatori, cambiano solo i volti”.
E’ considerato una delle personalità più influenti d’Africa ed è noto per le sue caricature della “primavera araba”. Rifugiato sudanese è anche il cartoonist Khalid Albaih, 42 anni, in video collegamento dalla Norvegia. Ha creato la serie e l’hashtag #Khartoon per sensibilizzare su quanto sta accadendo nel suo Paese. Il padre era un diplomatico finito nel mirino del generale Al-Bashir. “Gli europei hanno cercato di sostenere i civili sul piano politico ma purtroppo hanno anche legittimato i militari e i paramilitari delle Forze di supporto rapido”, sottolinea il cartoonist. “Hemeti ha ricevuto fondi dall’Unione europea per controllare i flussi migratori: ora i cittadini dell’Ue devono sapere che il numero dei rifugiati sta aumentando e che la crisi investirà i loro Paesi”.
Su 55 milioni di abitanti sono oggi 19 milioni le persone in insicurezza alimentare, una cifra record per il Sudan. Lo riferisce Emanuela Cutelli, del World food programme. “Già prima del conflitto un terzo del Paese era in situazione di insicurezza alimentare; ora si sono aggiunte altre 2 milioni e mezzo di persone. La situazione è disastrosa”. L’agenzia Onu ha raggiunto finora con aiuti alimentari 830.000 persone ma spera “entro pochi giorni di arrivare ad 1 milione”. Lo scrittore e filosofo Filomeno Lopes esorta invece gli africani a “smettere di commiserarci e martellare di più le nostre istituzioni, in primis l’Unione africana. Continuare a chiedere aiuti che non arrivano vuol dire continuare a farsi del male”. Secondo il giornalista Luca Tatarelli, di Report Difesa, esperto in questioni geopolitiche e militari, “in Sudan si sta facendo un’altra guerra per procura. Russia e Cina stanno aprendo il fronte africano perché la Nato distolga lo sguardo dall’Ucraina. L’Africa è strategica per il controllo delle risorse necessarie alle tecnologie del futuro”.